Roma delenda non est. Almeno fino a questo momento. E il M5S…

13 Mar 2018 13:03 - di Rocco Familiari

Il successo del M5S alle recenti elezioni politiche carica i suoi esponenti di una responsabilità nuova, che va oltre il fatto, scontato, che siano diventati interlocutori obbligati dei partiti tradizionali per tentare di costituire un governo. Devono ora farsi carico anche della necessità di esprimere una visione, per usare un termine forse obsoleto, ma imprescindibile, che comprenda tutti gli aspetti della complessa realtà sulla quale la loro azione, in un modo o nell’altro, inciderà, dati i numeri dei parlamentari di cui dispongono, in maniera rilevante. E fra questi, il più importante, dopo la stabilità economica (conseguita anche, eventualmente, con modi per così dire più “originali”… rispetto a quelli noti), presupposto intanto della permanenza della nazione fra quelle che contano in Europa e nel mondo, e poi di qualsiasi iniziativa si voglia intraprendere, è ciò che caratterizza, da sempre, il nostro paese: la bellezza. Che ha un valore non solo estetico, ma economico. Se l’Italia è, come si usa dire, un brand vincente, lo è perché è il paese della bellezza. In varie forme: arte, architettura, musica, paesaggio, che si tratti delle colline toscane o dei boschi silani o delle Dolomiti, ma soprattutto dei centri urbani, grandi e piccoli.

Orbene, mentre per i piccoli centri vi è da tempo un’attenzione crescente riguardo alla loro salvaguardia – dei centri in sé e del tessuto ambientale – per le grandi città, probabilmente perché agiscono in esse forti interessi economici e non vi è quel rapporto diretto, quasi intimo, fra abitanti e luogo, vi è minore allarme per gli attentati alla loro integrità. La storia urbanistica dell’ultimo cinquantennio è infatti una storia di scempi, devastazioni, che hanno non solo ferito, in qualche caso distrutto irrimediabilmente, intere porzioni di territorio, ma anche mutato profondamente i connotati delle metropoli, incidendo pesantemente sull’esistenza stessa dei cittadini. Basti pensare a cosa sono stati le “Vele” di Napoli, o il “Serpentone” di Roma o lo “Zen” di Palermo.

Sui centri storici delle grandi città vi è sempre stata, per la verità, almeno dal punto di vista delle garanzie formali, una maggiore tutela sulla conservazione dei manufatti di importanza storico-artistica, delegata in massima parte alla vigilanza delle soprintendenze. Di recente però, soprattutto a Roma, già aggredita negli anni Cinquanta e Sessanta dalla furia distruttiva dei cosiddetti “palazzinari”, si sono create delle smagliature. L’episodio più vistoso è quello dei villini storici, abbattuti senza remore per far posto a costruzioni, non importa quanto dignitose, in sé, sul piano architettonico, comunque assolutamente stridenti rispetto al contesto.

L’ultimo caso di cui si è occupato la stampa è avvenuto in Piazza Caprera, una delle piazze più belle nel quartiere Trieste, dotato di una sua inconfondibile fisionomia che qualsiasi modifica può compromettere. Pare che la responsabilità, oltre che alla insensibilità, e spesso all’incompetenza o all’ignoranza tout court, di chi è preposto a concedere le autorizzazioni, sia da addebitarsi al Piano casa e ai suoi strumenti di valutazione, che non terrebbero conto dei vincoli fissati dal Piano Regolatore del 2008 che definisce le aree di “Città storica” e “Città storicizzata” (ex zone B1 del vecchio PRG).

Roma è da due anni guidata da una sindaca grillina, sulla quale sono piovute, a torto o a ragione, una infinità di critiche, per tutto ciò che non funziona, magari da decenni, nella Capitale. In questo caso è chiamata direttamente in causa perché provveda, con una delibera di giunta, a bloccare immediatamente le demolizioni e a inserire nel PTPR le aree predette. Dopo il trionfo elettorale della sua formazione, Virginia Raggi ha, però, personalmente, una responsabilità in più, quella di fissare i termini della sua idea (e dell’intero Movimento) di bellezza, in altri termini di dare concretezza a una visione del mondo. Ne sarà capace?

La vicenda dei villini chiama però in causa anche il trionfatore nazionale delle elezioni. In questo senso può essere un test significativo della sua asserita intenzione di voler interpretare un ruolo non più di guastatore, ma di stabilizzatore. Si tratta di una questione apparentemente marginale rispetto agli enormi problemi che dovrà affrontare, ma che coinvolge invece vari profili: la concezione della bellezza come bene pubblico, il rispetto della volontà dei cittadini – che stanno sottoscrivendo a migliaia, a prescindere dall’appartenenza a questo o a quello schieramento, una petizione al sindaco affinché blocchi le ruspe – il rapporto fra potere centrale e poteri locali (nel caso in specie, fra il MIBACT e gli uffici comunali), la capacità di opporsi al potere delle lobbies del mattone, che, anche quando strizzano l’occhio ai nuovi vincitori, hanno in mente sempre e soltanto un solo obiettivo, il proprio interesse, non importa se a scapito di quello generale.

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