Botte al carabiniere, il “compagno” dalla cella parla di “giorno memorabile”
In dieci contro un solo carabiniere, quel 10 febbraio scorso, a Piacenza, quando il militare, rimasto isolato, fu aggredito e picchiato dai manifestanti con il volto coperto e armati di bastoni e sassi che volevano impedire lo svolgimento di un comizio di CasaPound in città. Fu un’azione vile e irresponsabile, nel nome dell’antifascismo militante, cinque agenti rimasero feriti, alcuni presunti “picchiatori” finirono in carcere, luogo che non sembra avergli ispirato alcuna forma di pentimento, anzi.
In una lettera al sito Aut.org, che fa riferimento all’estrema sinistra e al movimento Potere al popolo, Lorenzo Dibi Canti, che insieme a Giorgio Battagliola era nel gruppo accusato del pestaggio del carabiniere, trova ospitalità con una lettera dal carcere di Piacenza “San Lazzaro”. Non è pentito, anzi, chiama a raccolta i compagni contro l’antifascismo, il “terrorismo leghista”, lo Stato che lo tiene in “ostaggio”. Il 23enne modenese, esponente dei centri sociali bolognesi, finito in manette (al momento solo con l’accusa di resistenza a pubblico ufficiale) e sospettato di aver preso a calci e pugni Luca Belvedere, il carabiniere restato isolato dal suo reparto e assediato dai manifestanti, parla di “giornata memorabile”.
«Scrivo questa lettera dal carcere di Piacenza in cui mi trovo rinchiuso da quella memorabile giornata di lotta collettiva che da nord a sud dell’Italia ha visto le strade e le piazze riempirsi di una forza politica fondamentale per la nostra classe precaria in questo periodo storico: un tuonante NO al fascismo e al razzismo…», è l’incipit della missiva dal carcere, nella quale si leggono deliri politici che riecheggiano i tristi slogan marxisti degli anni di piombo, impressi nella memoria del Paese e rievocati oggi, nel giorno del ricordo del rapimento di Aldo Moro e del massacro della sua scorta da parte delle Br. «In quelle piazze di massa c’eravamo tutti: c’era la classe operaia, i lavoratori della logistica che conoscono bene il prezzo di essere immigrati nel nostro paese, e che da anni scioperano per condizioni di lavoro dignitose; c’erano i giovani delle periferie, dei quartieri popolari… Un grande grazie a voi, compagni, per aver rotto la gabbia, per aver rotto le catene nel momento in cui sembravano stringersi, noi ora dentro il carcere siamo come ostaggi nella rappresaglia dello stato contro i poveri, in una battaglia persa da Minniti, e che ora si serve dei tribunali per reprimere ciò che era giusto e naturale fare: scendere in strada e lottare…». Lo Stato, la rappresaglia, la lotta in strada: parole da brivido. Il saluto finale ai compagni che sono fuori (di cella…) è da Rivoluzione russa: “A testa alta e a pugno chiuso! Dibi”. Di scuse, agli agenti di polizia, neanche l’ombra.