“Poche rose, tanti baci”: un romanzo sull’amore, l’assenza e la rinascita

16 Feb 2018 15:46 - di Gloria Sabatini

Accattivante, da leggere tutto d’un fiato. Poche rose, tanti baci è il primo romanzo (Castelvecchi edizioni) di Francesca G. Marone, una fatica decisamente riuscita che fa presagire nuove “incursioni letterarie”. Sociologa, laureata in Scienze politiche, l’autrice vive e lavora a Napoli. Ha già pubblicato racconti e antologie di poesie per diverse case editrici. Dalla rielaborazione del manoscritto Lui così estraneo è nato il suo primo romanzo Poche rose, tanti baciAgile ma denso (93 pagine), il libro ha una dedica per nulla scontata: “A mio padre e all’uomo in lui”, perché il romanzo procede passo dopo passo nella ricerca sofferta del padre della protagonista, Maria Giulia. Assente, lontano, “diverso” da come lei lo vorrebbe, è un padre ingombrante, una presenza ostinatamente intrecciata alla vita di Maria Giulia (alias Francesca), donna colta, sensibile, preziosa nelle riflessioni sussurrate che sostengono la narrazione. La distanza è l’architrave del romanzo, una frattura essitenziale ed emotiva che la perseguita e la spinge a “elaborare il lutto” per poter annusare un’altra vita. È un libro sull’amore  – ci scherza su la Marone – ma “diversamente amoroso”.

“Poche rose, tanti baci”: un libro“”diversamente amoroso”

«E ho pensato alla vita, che è surretizia, e che raramente mostra in superficie le sue ragioni,  invece il suo vero percorso avviene in profondità, come un fiume carsico»: le parole di Antonio Tabucchi  introducono il primo capitolo. Luci e ombre, salite a perdifiato e discese dionisiache sullo sfondo di un’ombra che distilla dolore e purifica. Così la protagonista percorre tutto il buio che la conduce al padre perché «rivuole indietro la sua vita». Prima indecisa per la rabbia covata in tanti anni, poi pronta al pellegrinaggio filiale. Bambina e adulta, Maria Giulia accetta di incontrare il padre gravemente malato, impotente nel suo letto d’ospedale. Il suo viaggio in autostrada è una metafora dell’esistenza. Lascia i figli a casa (non vedono il nonno da anni, non avrebbe senso portarli), sola (il marito l’ha lasciata per un’altra), si prepara al grande incontro. All’abbraccio (che non ci sarà) con il padre, un  ex vincente, prepotente, tombeur de femmes. Sempre all’estero, tanti anni vissuti a Praga, che oggi è impotente, fragile e indifeso.

Per tutte le bambine che camminano zoppicando

«Andavi e venivi, riapparivi come una nuvola. E uno che non c’è non se ne può andare. Poi un giorno hai scatenato una tempesta: hai gettato la malattia e la morte di fronte a me con violenza. E io mi sono ritrovata con una cassetta degli attrezzi povera e insufficiente. Così ne ho scritto, ho attraversato una storia di incomprensione, distanza, dolore, abbandono, dove tu, in maniera insolita per noi due, mi hai accompagnata per mesi, poi per anni. Ho lastricato la strada della mia scrittura con dubbi e soste. Molti mi hanno sostenuta, altri volevano farmi desistere». Ma la storia è andata avanti quasi da sé. Come il viaggio da Napoli a Praga alla ricerca di una verità che sarà dolorosa ma catartica. Non è stata una scrittura semplice, ammette l’autrice. E la lunga gestazione traspare dall’accuratezza delle parole, dalla sobrietà di uno stile che è frutto di un magma incandescente di emozioni forti e insieme discrete. Maria Giulia scandaglia l’estraneità dei sentimenti che l’hanno accompagnata per decenni, fino a un nuovo significato dell’esistere che prelude a un’altra vita. «Per quella bambina dentro di me, poi per tutte le bambine che hanno camminato zoppicando  in cerca di loro stesse».

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