Fare la pizza è un’arte patrimonio dell’umanità. Per l’Italia è la stella numero 58
Adesso nessuno si offenda se qualcuno, per identificare l’Italia, farà riferimento a pizza, spaghetti e mandolini. Ci deve essere del vero in questo luogo comune se l’Unesco ha deciso che l’arte del pizzaiuolo napoletano è patrimonio dell’umanità. Patrimonio immateriale, ma solidissimo, fatto di tradizione manuale e conoscenza. Per l’Unesco infatti, come si legge nella decisione finale, «il know-how culinario legato alla produzione della pizza, che comprende gesti, canzoni, espressioni visuali, gergo locale, capacità di maneggiare l’impasto della pizza, esibirsi e condividere è un indiscutibile patrimonio culturale».
La pizza del resto è ormai cibo globale: gli americani sono i maggiori consumatori con 13 chili a testa mentre gli italiani guidano la classifica in Europa con 7,6 chili all’anno. A seguire ci sono gli spagnoli (4,3), i francesi e i tedeschi (4,2), i britannici (4), i belgi (3,8) e i portoghesi (3,6). Chiudono la classifica gli austriaci con 3,3 chili di pizza pro capite annui.
Per l’Italia si tratta del 58esimo Bene tutelato, il nono in Campania. Il processo che ha portato al raggiungimento dell’importante obiettivo è iniziato nel 2010 con la presentazione nel 2015 della candidatura ufficiale da parte della Commissione Nazionale Italiana Unesco e poi ripresentata il 4 marzo 2016, quando il Consiglio Direttivo della Commissione Nazionale Italiana per l’Unesco, riunitosi a Roma, ha deliberato all’unanimità di ricandidare per l’anno 2017 nella Lista dei Patrimoni immateriali dell’Umanità dell’Unesco “L’Arte tradizionale dei pizzaiuoli napoletani”.