Riina “la belva” in gabbia: la cattura del boss che ha scritto l’immaginario sulla mafia (Video)

17 Nov 2017 9:38 - di Ginevra Sorrentino

Lucido, spietato, un capo dei capi che non si è mai pentito e che, ancora nel 2013, intercettato in carcere durante l’ora di socialità, esprimeva tutta la sua ferocia contro il pm Di Matteo, l’ultima ossessione criminale che lo accompagnato fino alla fine. Fine arrivata questa notte, alle 3.37, nel reparto detenuti dell’ospedale di Parma, dove il boss mafioso Totò Riina, in coma farmacologico da diversi giorni, è morto con i familairi al suo capezzale. Tutti, tranne il figlio Giovanni, anche lui in regime di 41bis come il genitore, , sta scontando una pena all’ergastolo. Il regime carcerario duro cominciato per il capo dei capi quel 15 gennaio del 1993, quando Riina fu catturato dal Crimor (squadra speciale dei ROS guidata dal Capitano Ultimo) e quando la storia civile del Belpaese scrisse uno dei capitoli conclusivi più importante. Quell’arresto, divenuto materia di rivisitazioni cinematografiche più o meno riuscite, più o meno illustri, pose fine alla latitanza del boss cominciata nel 1969. Un’azione che, a rivederne i fotogrammi oggi, e poi la rilettura della fiction, ha davvero dello spettacolare: in scena si registro la fine del terribile capoclan corleonese, finalmente arrestato quando tutti meno se lo aspettavanoal primo incrocio davanti alla sua villa, in via Bernini n. 54, mentre insieme al suo autista Salvatore Biondino, era in auto a Palermo.

Riina, quell’arresto entrato nell’immaginario della storia civile del Paese

Le sue condizioni erano nettamente peggiorate dopo l’ultimo intervento chirurgico subito, sempre a Parma: due operazioni in 15 giorni, per la verità che non gli hanno dato scampo. Uscita per l’ultima volta dalla sala operatoria, Riina è entrato in coma farmacologico, dal quale non si è mai risvegliato. Che la fine fosse imminente si sapeva ormai da giorni: e così ieri sono arrivati a Parma la moglie e la figlia, dopo l’ok arrivato dal ministro della Giustizia Andrea Orlando. Un addio fin troppo umano arrivato dopo settimane di dibattito sull’opportunità o meno di concedere al boss i domiciliari per sopravvenuti gravi motivi di salute, opportunamente non concessi a quel killer spietato, feroce –  Totò u’ curtu – capostipite indiscusso della dinastia dei Corleonesi, che ancora poco fa, intercettato in carcere durante una conversazione con la moglie, ribadiva di non voler chiedere nulla a nessuno, di non volersi piegare a nessuna richiesta o concessione. Lui, che durante la sua lunga detenzione ha più e più volte ribadito: “Mi posso fare anche 3000 anni, no 30 anni”. Lui, che ancora lo scorso gennaio, si era anche detto disponibile a rispondere alle domande dei pubblici ministeri e che poi, qualche giorno dopo, ci ripensò. Lui, che per sua stessa ammissione non si è mai detto pentito della scia di sangue lasciata alle sue spalle, Lui che delle sue vittime – Falcone e Borsellino in testa a tutti – non ha avuto mai la minima pietà…

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