Condannati genitori egiziani che frustavano i figli con il filo elettrico

24 Nov 2017 17:40 - di Paolo Lami

Sono stati condannati in primo grado ciascuno a 3 anni e sei mesi di carcere dalla Quinta Sezione penale del Tribunale di Torino i genitori egiziani, finiti alla sbarra per maltrattamenti su 4 dei cinque figli minorenni all’epoca dei fatti, perché accusati di averli sottoposti, dal 2011 al 2015, a punizioni corporali di eccessiva violenza, di averli frustati con il filo elettrico sulle mani e sotto le piante dei piedi, di averli legati alla sedie, di averli costretti a frequentare la scuola araba e a portare il velo. I ragazzini, tra i 10 e i 18 anni all’epoca dei fatti, sono stati affidati a una Comunità protetta e la sentenza ha previsto che siano risarciti con diecimila euro ciascuno.

A parlare dei maltrattamenti era stata una delle figlie, che era svenuta più volte a scuola. E, accompagnata in ospedale, si era, poi, sfogata con un insegnante, confidandole: «piuttosto che tornare a casa, mi uccido». Da quella frase tremenda erano originati gli accertamenti degli investigatori delegati dall’autorità giudiziaria sui due coniugi egiziani emigrati in Italia nel 2015 e sui ragazzi, tre sorelle e il fratellino, accertamenti che avevano confermato puntualmente le parole della ragazza svelando un abisso di maltrattamenti, vessazioni e violenze di ogni genere.

Era il padre, essenzialmente, a infliggere ai figli le pesanti punizioni corporali ma la madre dei giovani egiziani non solo non si opponeva alle violenze, ma, addirittura, segnalava al marito il comportamento dei figli attirando su di loro le violenze dell’uomo che si sentiva in qualche maniera legittimato dalla complicità della moglie. I figli la pregavano d non svelare al padre violento il proprio comportamento ma, invariabilmente, la donna confidava al marito le “colpe” dei ragazzi costretti ad alzarsi presto la mattina per poter pregare piuttosto che obbligati a indossare il velo o a non frequentare i Social.
Al termine della sua requisitoria il pm Dionigi Tibone aveva chiesto cinque anni di reclusione per il padre e tre anni e sei mesi per la madre: «Nella mia lunga carriera – aveva detto in aula il magistrato – ho affrontato pochi casi così gravi. I genitori – che hanno sempre rigettato ogni accusa – non hanno mai chiesto scusa, non si sono mai fermati a riflettere sui loro errori. Non hanno capito il danno che hanno fatto ai loro figli, oggi psicologicamente distrutti».

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