Omicidio Yara, la Corte d’appello conferma, il Dna non mente: è quello di Bossetti
Anni di investigazioni. Intere sedute dibattimentali incentrate sul dubbio. E gli ultimi mesi di polemiche strumentali e richieste legali, ma l’ultima parola, la pietra tombale su perplessità e recriminazioni, la mettono i giudici della Corte d’appello di Brescia che nelle motivazioni appena uscite confermano: nessun dubbio sulla prova regina. Il Dna è di Massimo Bossetti.
Il Dna non mente: è quello di Massimo Bossetti
Dunque, con queste motivazioni i giudici d’appello di Brescia spiegano la condanna all’ergastolo per il muratore di Mapello, accusato del delitto aggravato della 13enne Yara Gambirasio. Nella sentenza d’appello dello scorso 17 luglio, che ha confermato il massimo della pena già inflitto in primo grado, la corte evidenzia inoltre che sulla traccia genetica – la traccia mista di Bossetti e di Yara trovata sugli slip e i leggings della vittima –, non può essere effettuata una perizia, come chiesta più volte dalla difesa dell’ imputato. «Quello che è certo, in ogni caso – si legge infatti ancora nelle motivazioni – è che non vi sono più campioni di materiale genetico in misura idonea a consentire nuove amplificazioni e tipizzazioni; si deve, quindi, ribadire ancora una volta e con chiarezza che una eventuale perizia, invocata a gran voce dalla difesa e dallo stesso imputato, non consentirebbero nuove amplificazioni e tipizzazioni, ma sarebbe un mero controllo tecnico sul materiale documentale e sull’operato del Ris».
Il Dna, una prova granitica contro l’imputato Bossetti
E quindi «la famosa perizia genetica sarebbe necessariamente limitata ad una mera verifica documentale circa la correttezza dell’operato del Ris e dei consulenti dell’accusa, pubblica e privata». E attraverso quella traccia genetica, al termine di una lunga indagine durata quasi quattro anni, che gli investigatori riescono a dare un volto a Ignoto 1, unico imputato per l’omicidio di Yara, uccisa a Brembate (Bergamo) il 26 novembre 2010 e trovata senza vita in un campo di Chignolo d’Isola dopo tre mesi di ricerche. Per la corte d’appello di Brescia presieduta da Enrico Fischetti, il Dna costituisce la prova granitica contro l’imputato, una certezza che si sarebbe formata durante il dibattimento. «Pertanto – si evidenzia nelle motivazioni – deve ritenersi che la doglianza della difesa circa la violazione dei principi del contraddittorio e delle ragioni difensive, sia del tutto infondata». Una prova granitica, si diceva. Una pietra tombale sul processo.