Le minacce dei baroni universitari al ricercatore senza santi in paradiso
«Qui non c’è nessun merito, ognuno ha i suoi». C’è tutta l’arroganza sprezzante dei potenti baroni universitari dietro a questa frase rimasta incisa sui nastri durante le intercettazioni dell’inchiesta che ha portato alla luce un presunto giro di corruzione nelle università per il concorso a cattedre di diritto tributario.
Nell’inchiesta, condotta dalla Guardia di finanza e coordinata dalla Procura di Firenze, denominata “Chiamata alle armi” sono finite indagate 59 persone, 29 delle quali – tutti docenti universitari – si sono viste notificare altrettanti provvedimenti cautelari personali: 7 baroni sono finiti agli arresti domiciliari e 22, invece, sono stati interdetti allo svolgimento delle funzioni di professore universitario e di quelle connesse ad ogni altro incarico assegnato in ambito accademico per la durata di 12 mesi con l’accusa di corruzione.
«Non sei nella lista», si sente dire con grande insolenza nelle intercettazioni da uno dei baroni, un professore dell’Università di Firenze che si rivolge in maniera così sprezzante a un ricercatore, invitandolo a ritirare la candidatura, perchè tanto non sarebbe stato scelto: «Non siamo sul piano del merito, ognuno ha portato i suoi», cerca di convincerlo per fargli capire che, comunque, la strada a lui è sbarrata da tutti i baroni che seguono, evidentemente, lo stesso modus operandi. Un sistema di accreditamento che non prevede meriti ma solo conoscenze e relazioni.
Ed è proprio da questo caso che sarebbe nata l’inchiesta giudiziaria sui baroni universitari del Diritto tributario, una vera e propria casta che non consente a nessuno, se non ai propri clientes, di accedere alla carriera.
Sarebbe stato, infatti, il ricercatore universitario così sbeffeggiato e umiliato dai baroni universitari a far partire l’indagine con la sua denuncia relativa al concorso del 2013, indagine poi allargata anche alla sessione del 2012. I vincitori del concorso nazionale venivano scelti dai docenti arrestati con una specie di “chiamata alle armi” – da qui il nome dell’operazione della guardia di Finanza – tra i componenti della stessa Commissione giudicante e non in base a criteri di merito.
«Smetti di fare l’inglese e fai l’italiano, tu non puoi non accettare. E che fai? Fai ricorso? Però ti giochi la carriera così», è solo una delle tante boriose frasi registrate durante un colloquio tra un barone e il ricercatore candidato all’abilitazione alla docenza di diritto tributario a cui era stato espressamente chiesto di ritirarsi dal concorso e che, invece, non accettò le pressioni per rinunciare a concorrere e corse dalla polizia a denunciare l’incredibile vicenda.
Dall’inchiesta coordinata dalla Procura di Firenze e che vede indagati numerosi docenti di diritto tributario di diversi atenei italiani emergerebbe che i concorsi a cattedra della materia sarebbero stato regolati «da una mera logica di spartizione territoriale».
In pratica, un commissario di concorso riceveva il via libera all’abilitazione di un docente a lui gradito – in genere un allievo o associato del proprio studio professionale – se, allo stesso tempo, promuoveva i i candidati sponsorizzati dagli altri colleghi.