La storia: una madre muore per il figlio. Quando non è la scienza a decidere

2 Set 2017 13:24 - di Redazione

Una storia straordinaria di estremo sacrificio e al contempo di grande amore per la vita senza se e senza ma. La leggiamo raccontata dallo scrittore Stefano Zecchi sul Giornale. Morire per far vivere un figlio: detto così, dice poco della profondità della scelta di una donna gallese: “Perché l’idea di morire per salvare un proprio caro è facile: in linea teorica è molto facile da ammettere – leggiamo le parole di Zecchi – . Ma per coloro che sanno di star vivendo gli ultimi giorni del loro mondo, la morte acquista un altro significato. L’estinzione di ogni realtà, di tutta la realtà del proprio mondo esistente, è un concetto che nessuna rassegnazione sa accettare. Chi riesce coscientemente ad andare incontro a questa estinzione della propria esistenza, accettandola con lucida convinzione, ha nella sua anima qualcosa di eroico”.

Una scelta eroica

Si tratta di una giovane mamma di 33 anni, Tasha Trafford, gallese,  colpita cinque anni fa da un tumore alle ossa. Vince la prima battaglia, superando la malattia. Allora «Tasha decide di usare uno degli embrioni che aveva precedentemente congelato per rimanere incinta. Alla 16ª settimana di gestazione, scopre che il tumore è ritornato più aggressivo di prima. È di fronte a una scelta: abortire e sottoporsi alla chemioterapia con la buona possibilità di guarire, oppure portare avanti la gravidanza, sapendo che, poi, in breve, sarebbe morta. Decide di proseguire la gestazione per la vita del figlio. Nasce il suo piccolo Cooper, lei può seguirlo solo per 11 mesi. Muore. La scienza medica mette di fronte alla donna una realtà spietata: si può salvare una vita sola. Ma a decidere non è la scienza, bensì l’umana fragilità di una coscienza». Negli ultimi mesi la vicenda del piccolo Charlie Gard ci ha dilaniato le coscienze, mettendo sotto accusa una scienza medica senza cuore, inflessibile, che ha deciso e ha avuto la meglio sulle scelte interiori dei genitori, delle coscienze, delle fragilità umane, dei leggittimi desideri ultimi. In questo caso molto diverso la parole della scienza era stata chiara: si può salvare una sola vita. E la giovane Tasha ha potuto scegliere: la vita, quella del figlio, anche se la stessa scienza le avrebbe garantito la sua di vita, se avesse sacrificato il piccolo. 

La scienza non può decidere le criticità dell’esistenza

«È un gesto di generosità? – scrive Zecchi- Certo, ma è troppo poco, è riduttivo recintare la scelta di Tasha in quel sentimento, per quanto di illustre nobiltà. Il suo gesto va oltre la generosità, è religioso: se volete, esprime la consapevolezza della trascendenza. Una vita è vita se viene pensata, sentita, amata come qualcosa che non si esaurisce nell’esistenza biologica. Per Tasha, la vita che ha in grembo è un dono superiore al dono della sua propria vita. La scienza medica, impotente, può solo ammirare la grandezza di un’anima che non ha saputo salvare. Troppo spesso ci rimettiamo alla conoscenza scientifica per la soluzione delle criticità della nostra esistenza, poiché la consideriamo una forza capace di superare le nostre limitate possibilità d’azione. Ci sono però situazioni in cui i limiti della conoscenza scientifica possono mettere in luce la grandezza dell’umanità».

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