Quando Robert Lee disse: “Non erigiamo statue, ricordano la guerra”
Contestualizzare la guerra di secessione (che gli americani chiamano guerra civile) sembra oggi la parola d’ordine. Monta infatti il dibattito negli Stati Uniti sull’opportunità di rimuovere le statue dedicate ai confederati o meno. Dopo le notizie di cronaca causate agli scalmanati che dall’una e dall’altra parte di sono scontrati, come in queste ore ad Atlanta e a Dallas, i più pacati stanno ragionando se una soluzione talebana sia opportuna o meno. Anche se mediaticamente la notizia ha rilievo, in realtà ad Atlanta e Dallas sono state poche centinaia le persone che hanno manifestato per abbattere le statue, e poche decine quelli che le volevano difendere, anche con le armi. La maggioranza degli americani sta riflettendo su questo problema, che oltre che storico è anche filosofico. La Cnn ha svolto una serie di illuminanti interviste tra i discendenti dei personaggi cui le statue sono dedicate: Robert Lee, “Stonewall” Jackson, Jefferson Davis, che della confederazion era il presidente. Sorprendentemente, alcuni di loro condividono l’idea di togliere le statue dalle piazze ma di conservarle nei musei e nei luoghi storici, perché la storia non si può cancellare. Addirittura il discendente di Robert Lee ha ricordato che lo stesso generale, che morì nel 1870, circondato dalla stima e dal rispetto di tutti (insegnava all’università) interpellato in proposito, si mostrò sempre piuttosto riluttante all’idea di erigere monumenti, perché sosteneva il comandante in capo della Confederazione, quelle statue avrebbero potuto rinfocolare gli odi e le passioni della guerra fratricida. Meglio sarebbe stato, diceva Robert Lee, seppellire le divisioni e pensare al futuro. E’ noto che Lee amava veramente l’America e il suo popolo, come del resto Abramo Lincoln.
Strano questo ritorno di fiamma dopo 150 anni…
Dopo 150 anni, è strano però che improvvisamente si siano riaccese le passioni per una guerra lontana, sia pure civile: è molto più probabile che i cosiddetti anti-razzisti stiano approfittando del fanatismo dei sudisti estremisti per mettere in difficoltà il presidente Trump, la cui vittoria non hanno ancora digerito. L’abbattimento talebano delle statue sudiste sarebbe il cavallo di troia per costringere Trump a una reazione in difesa della storia e accusarlo di razzismo, tratta degli schiavi, nazismo e chissà cos’altro. Questa dei dem è una pratica consolidata, che spesso riesce a mettere in difficoltà l’avversario: se non se d’accordo con noi sei un razzista fascista. L’abbiamo visto in campagna elettorale, la più scorretta della storia Usa, quando addirittura un presidente in carica è intervenuto a gamba tesa contro l’asvversario della sua protetta con insulti e dileggiamenti. Le statue sono solo un pretesto per prendersi la rivincita. Ma fortunatamente c’è ancora chi ragiona negli States: chiudiamo le statue nei musei, consegnamo le giacche grigie alla storia, lasciamo che gli americani caduti a Gettysburg, Vicksburg, Bull Run e ovunque, riposino in pace. Ognuno di loro credeva di combattere per un’America migliore e non cediamo alle ipocrisie. Le manifestazioni di oggi contro le statue sono una scusa per dire che i confederati erano razzisti e schiavisti: ma il presidente Abramo Lincoln era repubblicano, e nelle sue tenute possedeva schiavi Il più grande massacro di neri avvenne durante la guerra a New York, nel nord, e non ad Atlanta o a Richmond. In conclusione, se i democrats credono di far dimettere Trump con questi giochetti, pesa su di loro la responsabilità storica di voler dividere un popolo che, anche grazie a quella guerra, è diventato un popolo unito. La logica del “se non vinciamo noi, è caos”, lascia il tempo che trova e identifica gli anti- presdiente Trump – il quale ha vinto legittimamente e democraticamente – per quello che sono: dei faziosi.