Antifascismo di ieri di oggi: quando Togliatti “difese” il Regime

11 Lug 2017 12:30 - di Massimiliano Mazzanti

Può sembrare un’affermazione addirittura “eretica”, ma l’Antifascismo, così com’è declinato dalle nuove norme che il Pd vorrebbe far approvare in Parlamento in queste ore, è niente meno che… anticostituzionale! A ben vedere, infatti, la Costituzione italiana, nella XII disposizione transitoria e finale, si limita a proibire «la ricostituzione del disciolto partito fascista». Attenzione: l’aggettivo “disciolto” – come è stato ampiamente illustrato dal ’48 a oggi – circoscrive l’efficacia della norma, almeno giuridicamente, proprio al Pnf e, per logica e storica estensione, al Per, cioè a quegli eventuali tentativi di far risorgere in Italia esattamente quelle organizzazioni politiche che erano esistite fino al 25 luglio 1943 e al 28 aprile 1945.

Dal reato di “apologia di Fascismo” all’Antifascismo alla Fiano

Per di più, i padri costituenti erano talmente lontani dai deliranti propositi odierni da prevedere che, al massimo nel 1953, i capi del Fascismo – sì, proprio i capi, quelli sopravvissuti alle stragi post-25 aprile – fossero pienamente riammessi alla vita politica (secondo comma della XII disposizione).  E, infatti, con le politiche del 1953, fece ingresso a Montecitorio il più alto rappresentante superstite del Partito fascista repubblicano: il fondatore del Mai, Pino Romualdi, già vicesegretario e “braccio destro” di Alessandro Pavolini. Del reato di “apologia di Fascismo”, poi, i costituenti non volere nemmeno sentir parlare, tanto che, in verità, si tratta di un’invenzione legislativa di Mario Scelba, nella legge che prende il suo nome, la 645 del 20 giugno 1952. Mai legge fu tanto discussa e, di fatto, inapplicata, dal momento che i magistrati – con una serietà di cui oggi tanto spesso si sente la mancanza – interpretarono le nuove norme alla luce, appunto, del dettato costituzionale, individuando il reato di “apologia” quasi sempre e quasi solo quando l’eventuale azione di elogio fosse mirata e funzionale all’effettiva organizzazione di un ricostituito partito fascista, lasciando che in tutti gli altri casi prevalessero le superiori norme della Carta fondamentale in materia di diritto d’espressione.

Antifascismo alla Fiano: quando Togliatti difese il Ventennio

Ma c’è di più, in merito all’Antifascismo alla Fiano. Quel genere d’interpretazione, nella seduta del 30 luglio del 1946 (non da oggi certe polemiche sono il frutto più della calura che della razionalità), fu oggetto di una polemica specifica tra il presidente della Commissione dei 75 – il democristiano Umberto Tupini – e Palmiro Togliatti. Al leader del Pci, che voleva una norma (per altro non transitoria, ma nel corpus della Carta) molto vaga e di conseguenza molto estesa nella sua possibile applicazione, Tupini replicò testualmente: «Tanto più che sarebbe assai difficile definire il fascismo: ognuno ne darebbe una definizione diversa, mentre deve ritenersi fascista ogni regime totalitario e quindi soppressore dei diritti della personalità umana». Togliatti non solo si vide scoperto, nella sua intenzione di poter in futuro usare l’Antifascismo come un randello ideologico-propagandistico con cui menare l’avversario di turno, ma capì anche l’antifona – come tradì l’intervento di Concetto Marchesi, sodale del “Migliore”, il quale comprese che, così interpretando, anche il Comunismo sarebbe potuto essere bandito –, ripiegando sulla versione più blanda che poi venne approvata.

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