Morto a 30 anni per turni massacranti: la Cassazione condanna il datore di lavoro
L’azienda sanitaria di Enna è stata condannata a risarcire gli eredi di un dipendente dell’ospedale di Nicosia che è morto per superlavoro. Lo ha deciso la sezione Lavoro della Corte di Cassazione accogliendo il ricorso della moglie e della figlia di un radiologo di un ospedale dell’Azienda sanitaria provinciale di Enna che avrebbe svolto la sua professione in condizioni “disagiate” e da “superlavoro”, fatti che, emerge dalla sentenza, sarebbero una concausa del suo decesso avvenuto nel 1998.
Il radiologo morto per troppo lavoro in un ospedale di Enna
«L’imprenditore – sottolinea la Suprema Corte – è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro». Nella sentenza si legge che è «irrilevante che il dipendente non si sia lamentato». Nel procedimento i giudici ricordano le cifre del superlavoro: dal 1991 al 1998 (data del decesso del tecnico) i quattro tecnici di radiologia avevano effettuato 148.513 esami, una media di 18.564 annui, più quelli del servizio di tomografia computerizzata, 662 l’anno; lo svolgimento di turni di pronta disponibilità notturna e festiva e di pronta disponibilità diurna in eccesso rispetto ai limiti previsti dalla contrattazione collettiva vigente.
Morto per super lavoro: condannata azienda sanitaria di Enna
L’uomo, Giuseppe Ruberto di Nicosia, aveva appena 30 anni, quando era morto nel 1998, dopo sette anni di turni massacranti. Sulle cause del decesso la Cassazione scrive che «un’eventuale predisposizione costituzionale del soggetto», deceduto per una cardiopatia ischemica silente, «non possa elidere l’incidenza concausale, anche soltanto ingravescente, dei nocivi fattori esterni individuabili in un supermenage fisico e psichico, quale quello documento in atti». In primo grado il Tribunale aveva dato ragione agli eredi, la Corte d’appello aveva invece riformato la sentenza. La Corte di Cassazione ha invece confermato la condanna dell’Asp al pagamento al giusto indennizzo e ha rinviato alla Corte d’appello di Palermo per «provvedere anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità».