Il ritratto di Togo, un cavaliere azzurro mediterraneo

9 Giu 2017 10:45 - di Rocco Familiari

Conosco Togo da una cinquantina d’anni. All’inizio degli anni Sessanta, quando, dopo una breve parentesi nella magica Ragusa, mi stabilii a Messina, Enzo Migneco (in arte “Togo”) si era da poco trasferito a Milano, dove era nato, e dove risiedeva da tempo il celebre zio.

La decisione di Enzo di assumere un nome d’arte era finalizzata a prendere in certo qual modo le distanze dall’ingombrante congiunto, allora il più noto pittore meridionale, insieme con Guttuso. “Togo” gli fu suggerito, a quanto egli stesso mi ha confidato, da Ercole Pignatelli, un pittore della sua generazione, nel 1961, mentre si trovavano in vacanza (anche con lo zio Giuseppe) a Forte dei Marmi. Gli era piaciuto solo per la brevità; per lui allora non aveva alcun significato. Solo in seguito scoprì che era il nome di uno Stato africano, di un vino delle cinque terre, e del famoso ammiraglio giapponese, vittorioso a Tsushima nel 1905, nonché la traduzione inglese di “andare” (to go). Ma Togo ha dimenticato, non so quanto intenzionalmente, che “Togo” vuol dire pure “ottimo”, “eccellente”, e in tale accezione era un termine abitualmente usato a Messina. Mi soffermo sul fatto, in apparenza secondario, perché la scelta proprio di quello pseudonimo la dice lunga sulla misura dell’ego…, sotto l’apparenza così placida, del giovane pittore, il quale già nelle prime opere manifestava la sicurezza di tratto e la chiarezza stilistica che costituiranno la cifra caratteristica della sua pittura.

Pur se ormai viveva e lavorava nella Milano non ancora “da bere”, ma di certo la metropoli più europea della penisola, Togo tornava spesso nella città dello stretto, il luogo in cui era cresciuto e in cui aveva cominciato a dipingere insieme con un gruppo di artisti, tutti di talento. Ne riporta sempre accuratamente i nomi nel suo profilo biografico, testimonianza non solo della fedeltà ai valori dell’antica amicizia, ma anche riconoscimento dell’importanza di quella realtà culturale ai fini della sua crescita come artista. Ed è lodevole il fatto che egli non abbia mai rinnegato quei legami, neppure dopo il successo arrivato ben presto, circostanza che frequentemente spinge a tagliare i ponti col passato, per non doversi sentire in debito con nessuno, ma soltanto figli di se stessi. Ciò accade però nei mediocri.

I suoi amici, alcuni molto dotati, penso soprattutto a Celi e Cannistraci, ma anche Santoro, Alvaro, Brancato, Samperi, Lombardo (ne dimentico certamente altri), sono rimasti inesorabilmente inchiodati – coloro che non hanno avuto la sua stessa “audacia” (di sradicarsi cioè) – a una dimensione culturale asfittica, quella tipica di una piccola città di provincia, che neppure la presenza di ben quattro società concertistiche di livello (per cui era considerata una delle più “musicali” d’Italia) e di un’ottima università con docenti di eccezionale levatura, riusciva a riscattare da una situazione di oggettiva emarginazione, aggravatasi peraltro negli anni, malgrado la realizzazione di un’importante struttura come il Teatro Vittorio Emanuele.

Il “nume tutelare” della città all’epoca era Salvatore Pugliatti, rettore per vent’anni dell’università, uno dei maggiori giuristi italiani, ma anche fine musicologo, appassionato collezionista d’arte, organizzatore, fra l’altro, della famosa mostra di Antonello negli anni Cinquanta, che costituì una pietra miliare nella storia delle grandi esposizioni e l’occasione di rilancio su scala mondiale del grande artista siciliano.

Togo era molto legato in particolare a Enzo Celi, un pittore geniale, ma afflitto da quella terribile malattia per la quale Sciascia coniò una definizione illuminante: “sicilitudine”, un mix micidiale di orgoglio e accidia nel brodo di coltura della “solitudine” isolana (“isolitudine” la chiamava Bufalino). Anch’io ero amico di Celi che amavo molto per la superba padronanza tecnica, la ricchezza dell’inventiva e la curiosità che lo spingevano a sperimentare nuove forme, nonché per l’umiltà con cui assorbiva stimoli, idee. La mia contagiosa passione per l’Espressionismo (nata da un rapporto di amicizia con uno dei maestri della “Brücke”, Karl Schmidt-Rottluff) lo portò a creare alcune xilografie di grande forza, fra cui un ritratto dello stesso artista berlinese, “Pittore con colomba” che gli commissionai quale regalo di compleanno per il grande maestro, il quale ebbe parole di sincero apprezzamento per il lavoro del pittore messinese. E fu grazie a Celi che conobbi Togo.

Seguivo, seppur da lontano, la sua attività, anche se non mancavano a Messina mostre di sue opere, curate da quel fine critico che fu Lucio Barbera. Fino a quando, alla fine degli anni Novanta (vivevo a Roma da una ventina di anni), promossi una mostra di pittori siciliani all’Acquario di Roma, a New York e in varie città italiane, curata da Gabriele Simongini e Lucio Barbera, alla quale fu invitato naturalmente anche Togo, che perciò in qualche modo “ritrovai”. Più maturo, consapevole, ma sostanzialmente fedele a una linea espressiva che aveva fin dai suoi esordi suscitato il forte interesse dei grandi critici e intellettuali che lo tennero a battesimo: Munari, Raffaele De Grada, Palumbo, Volponi. Togo riuscì a trovare infatti abbastanza presto un suo stile inconfondibile, basato essenzialmente su due elementi, uno per così dire strutturale e uno cromatico. Sul piano strutturale, o formale, i suoi quadri si riconoscono immediatamente per quella moltiplicazione di punti di vista che Elena Pontiggia, nella puntuale introduzione al catalogo della mostra dell’artista alla Galleria San Carlo di Milano (nell’aprile del 2017), definisce efficacemente con la suggestiva immagine dello “specchio infranto”. In effetti Togo, è memore della lezione cezanniana che la realtà è composta di figure geometriche (“In natura tutto è modellato secondo tre modalità fondamentali: la sfera, il cono e il cilindro. Bisogna imparare a distinguere queste semplicissime figure, poi si potrà fare tutto ciò che si vuole”), ma filtrata attraverso il rigore “monastico” di un pittore come Morandi, il quale dal canto suo sosteneva principi formali altrettanto radicali: “Ciò che noi vediamo, ritengo sia creazione, invenzione dell’artista, qualora egli sia capace di far cadere quei diaframmi, cioè quelle immagini convenzionali che si frappongono fra lui e le cose. Ricordava Galileo che il libro della filosofia, il libro della Natura è scritto in caratteri estranei al nostro alfabeto. Questi caratteri sono: triangoli, quadrati, cerchi, sfere, piramidi, coni ed altre figure geometriche. Il pensiero galileiano lo sento vivo entro di me. E’ mia antica convinzione che i sentimenti e le immagini, unificati dal mondo visibile, che è mondo formale, sono molto difficilmente esprimibili con le parole … sono infatti sentimenti che non hanno alcun rapporto, o ne hanno uno molto indiretto, con gli affetti e con gli interessi quotidiani, in quanto determinati appunto dalle forme, dai colori, dallo spazio, dalla luce”.

L’accostamento a Morandi si giustifica anche per un altro aspetto, che tocca un livello più profondo di affinità: Togo, come il maestro bolognese, è un raffinato cultore di quella “pittura col cilicio” che è la grafica. E la consuetudine con la grafica è una consuetudine con un procedimento, in sé, di “astrazione”. Il reticolo nero entro cui viene ingabbiato il bianco del foglio può anche dar luogo a forme che evocano oggetti, figure, ma ha un’autonoma dimensione figurativa che prescinde dal riferimento realistico. L’esercizio grafico presuppone non solo una conoscenza profonda di tecniche sofisticate, ma anche la capacità di vedere oltre la realtà visibile. Azzarderei che ha la stessa importanza dello studio dell’anatomia per la resa dei corpi nell’arte dei grandi pittori rinascimentali. E obbliga a una disciplina che impedisce qualsiasi… “effetto speciale”, troppo spesso una facile scorciatoia per sfuggire alla fatica del mestiere, quel “mestiere” al quale, com’è noto, auspicava il “ritorno”, il pictor optimus De Chirico in un celebre scritto del ’18 (nel primo numero di Valori Plastici). E come Morandi, anche Togo è in un certo senso nato classico. Del pittore bolognese il suo maggior collezionista, Magnani, rileva acutamente che finanche i suoi esordi metafisici si caratterizzano per una “salda, severa struttura”, a differenza della Metafisica di De Chirico, “di ispirazione più letteraria”, e anche di quella di Carrà, “volta a suscitare effetti di suggestione e di magico stupore”.

E fu questa “salda, severa struttura” a impressionare subito il poeta tedesco Theodor Däubler, il quale, nel 1921, visitando a Berlino la mostra Moderne Italiener organizzata da Mario Broglio al Kronprinzenpalais, riconobbe nello sconosciuto “bologneser Giorgio Morandi” i caratteri fondamentali del suo genio pittorico: “Ganz strengschöpft … er steht dadurch sowohl einem landalaufigen klassischen Ideal als auch einer rigoros modernen Anschauungsart besonders nahe” (una salda struttura formale che lo pone in rapporto sia con l’Ideale classico che con la più rigorosa arte moderna); “Er fasst dabei das seit Cézanne Geometrisch-Gebotene kraftvoll, oft drastsch an” (egli mutua da Cézanne la vigorosa e spesso drastica concezione geometrica), “trotz aller Herbeit, zart lyrisch” (l’aspra tenerezza lirica del colore), “kosmische Realitaten” (la realtà cosmica delle forme).

Däubler parla anche di “einfachste Formen” (forme semplicissime), ponendo l’accento sugli elementi geometrici che costituiscono la struttura fondamentale delle sue composizioni, “per quel loro risalire da una formulazione piana dello spazio e dall’appiattimento delle forme sino al recupero della profondità spaziale, alla plasticità dei volumi, … i due aspetti fondamentali della sua ricerca”.

E l’attenzione posta da Togo, fin dai suoi esordi, all’impianto strutturale, all’“anatomia sottostante”, esprime un’analoga esigenza, quella che per Morandi rappresentava la Grundnorm non solo della sua, ma dell’arte di ogni tempo: “Per me non vi è nulla di astratto; per altro ritengo che non vi sia nulla di più surreale, nulla di più astratto del reale.”

Va ribadito ancora che sono gli stessi principi a cui si ispirava Cézanne, solo che Morandi è ancora più radicale: “L’unico interesse che il mondo visibile suscita in me riguarda lo spazio, il colore, la forma.”

Per Togo non si tratta ovviamente di una scelta programmatica, “ideologica”, troppo spesso limitativa, ma di un’autentica necessità espressiva. Ha bisogno di imprigionare dentro una griglia geometrica il fulgore della “sua” luce, che altrimenti brucerebbe la tela e che, pur restando sempre abbagliante, viene come forzata dentro cunicoli, strettoie e fatta filtrare attraverso fessure, crepe, tagli, a plasmare forme che echeggiano paesaggi, oggetti, figure. La prospettiva multipla dei suoi piani cromatici costringe lo spettatore a spostarsi di continuo per intercettare i vari punti di fuga, un’interazione obbligata che impedisce la ricezione passiva di opere che sembrano comporsi sotto gli occhi stessi del fruitore.

Non ha senso, nel suo caso, porsi il problema se egli sia un pittore figurativo o meno, nel senso che Togo opera in una sorta di zona di confine dove la realtà tracima impercettibilmente verso l’astrazione (nel senso morandiano, per intenderci). Un po’ come accade a Klee e a due pittori molto affini, sul piano della luminosità cromatica, a Togo, fatte salve le differenze di tempi e stili, Macke, soprattutto quello degli acquarelli dipinti durante il suo viaggio a Tunisi, e il Marc dei colori “improbabili”, che tali non sono sotto il profilo espressivo, che è poi quello che conta.

L’altro elemento identificativo della “maniera” toghiana è quello squisitamente cromatico. Ineguagliati e inimitabili i suoi colori: gli arancioni, i rossi, i verdi. Non so se li abbia… brevettati, come ha fatto di recente Kapoor per il nero assoluto, rappresentano comunque gli ottoni della sua orchestra.

Ma alla mostra alla San Carlo sono presenti dei quadri “in nero”, opere in cui cioè la sua tavolozza, di solito così squillante, si costringe a una sorta di astinenza, giocando su tonalità grigiastre o addirittura nerofumo, che non negano il colore (continua a ribollire al di sotto di quella coltre scura), ma sembrano volerne esaltare la forza primigenia. Sono quadri che costituiscono una riprova, se mai ce ne fosse bisogno, della immensa sapienza tecnica di un artista capace di utilizzare tutti gli strumenti del mestiere.

Quella alla San Carlo non è la mostra più recente di Togo. Se n’è inaugurata una proprio in questi giorni al Teatro Vittorio Emanuele della sua Messina: “Paesaggi mediterranei”. Qui i suoi colori riesplodono con tutta la loro straordinaria potenza. Le sale sembrano inondate di luce, di acqua, di terra, di aria, gli elementi fondamentali del mondo pittorico, concreti e astratti al tempo stesso, di questo blaue Reiter mediterraneo.

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