2 giugno, referendum di sangue: la strage di via Medina non si impara a scuola
Oggi le istituzioni ricordano il 2 giugno, festa della Repubblica. Come nacque questa repubblica, quell’ormai lontano 2 giugno di 71 anni fa? Non è onesto, verso i nostri giovani, nascondere loro la metà della storia. I nostri politici, ormai tutti repubblicani da tempo, sanno benissimo come nacque la repubblica e in quale clima di guerra civile si svolse il referendum, e con quali garanzie di trasparenza. Anzi, non era solo un clima di guerra civile, era ancora guerra civile. Riproponiamo alcune considerazioni da noi svolte in occasione del 70° del referendum monarchia-repubblica. Nel nord Italia le bande partigiane comuniste continuavano ad assassinare chi non la pensava come loro: preti, fascisti, possidenti, cattolici, e anche semplici nemici personali. La guerra non era finita da un anno, e ancora si regolavano i conti con coloro che si pensava avessero potuto essere di ostacolo alla dittatura comunista che si pensava di installare in Italia quanto prima, con la complicità, l’appoggio, le armi e i soldi dell’Unione Sovietica. Sconfitto il fascismo, ora bisognava cacciare la monarchia, e non sembrava facile farlo, in quanto la maggioranza degli italiani era, nonostante le fughe, ancora attaccata alla vecchia istituzione. Si pensò, per far apparire le cose in regola, di indire un referendum in cui il popolo italiano potesse esprimersi. Ma la vittoria non era certa, tutt’altro. Per cui, con la regìa degli occupanti americani, e d’intesa con il Cln (Comitato di Liberazione nazionale, egemonizzato dai comunisti), si stabilirono le regole: si privarono del diritto di voto gli abitanti della Venezia Giulia, della Dalmazia, dell’Alto Adige, della Libia; inoltre non poterono votare tutti i prigionieri, gli sfollati, gli epurati, e tutti i loro familiari. Inoltre in tutto il nord le bande armate non permisero un solo comizio elettorale dei monarchici, e allora esporsi e fare propaganda equivaleva a morte certa. Le settimane precedenti alla consultazioni si svolsero tra tensioni e incidenti gravissimi: da sottolineare e ricordare che il ministro dell’Interno, il socialista Giuseppe Romita, trovandosi a corto di uomini per le forze dell’ordine, pensò di inquadrare nella polizia ausiliari provenienti dalle bande partigiane comuniste del nord, i quali trattavano la popolazione, soprattutto quella del Sud, come un nemico. Furono soprannominate dal popolo “le guardie rosse di Romita”.
Il ruolo delle “guardie rosse” di Romita
I nuovi vincitori insomma, con l’ombrello americano, avevano deciso di istituire la repubblica a qualsiasi costo. Lo disse chiaramente il leader socialista Pietro Nenni con la sua frase “O la repubblica o il caos”. Lo disse il ministro comunista delle Finanze Scoccimarro in un comizio, che in caso di vittoria della monarchia a referendum i comunisti avrebbero scatenato la lotta armata; e tutto mentre Pertini chiedeva la fucilazione di re Umberto di Savoia, dopo aver ordinato quella di Osvaldo Valenti e della sua compagna incinta Luisa Ferida. Per evitare un’altra guerra civile molti italiani pensarono di votare la repubblica. Ma ancora poteva non bastare: non si disse quanti erano gli aventi diritto al voto, le schede uscite dalle urne sembra fossero un po’ troppe, molti ricevettero più di un certificato elettorale, defunti compresi. Ovviamente, in uno Stato uscito da una guerra devastante e flagellato da una guerra civile strisciante, non si poteva pretendere uno svolgimento corretto, anche se vi fosse stata buonafede. Nessuno sapeva bene cosa fare, le schede furono inviate a Roma con mezzi di fortuna, chiunque poteva toccarle, chiunque poteva immetterne di nuove, non c’era controllo, anche perché non ci poteva essere. Dopo il referendum, le cose andarono ancora peggio: man mano che le istituzioni dichiaravano la vittoria della repubblica, molte città insorsero, consce della scarsa regolarità delle consultazioni, come Palermo, Taranto, Bari, Messina, ma soprattutto Napoli, dove per giorni centinaia di migliaia di persone dimostrarono in favore della monarchia. Tutte queste proteste furono soffocate nel sangue, e in particolar modo a Napoli, dove gli ausiliari delle guardie rosse di Romita mitragliarono la folla assassinando una dozzina di persone, perlopiù giovanissimi. L’episodio è noto come la strage di via Medina, ma non la si insegna a scuola. Era l’11 giugno 1946, e i feriti furono oltre cento. Pochi giorni prima uno sconosciuto aveva tirato una bomba a mano contro un corteo di monarchici, causando un morto e numerosi feriti. Perché la popolazione era insorta? Perché si erano sparse notizie, e forse qualcuno le aveva anche verificate, relative ai brogli di cui si parlerà per gli anni a venire, prima che la cortina del silenzio calasse anche su questa vicenda, come era calata per le foibe, per i crimini dei partigiani, per l’esodo degli istriani. Su 35mila sezioni elettorali furono presentati 22mila ricorsi, tutti respinti in pochi giorni. Lo spoglio delle schede pervenute avventurosamente nella capitale si svolse nella sala della Lupa a Montecitorio alla presenza della corte di Cassazione e degli ufficiali angloamericani occupanti. L’Italia risultò ancora una volta divisa in due: il centronord per la repubblica, il sud per la monarchia, tanto che dopo il referendum ci fu chi propose di separare il sud dal Paese per creare un regno con a capo re Umberto. E mentre la proclamazione ufficiale era attesa per il 18 giugno, e mentre la corte di Cassazione stava ancora esaminando i ricorsi, il governo la notte del 12 giugno, a scrutinio non ultimato, trasferì i poteri del capo dello Stato – che fino allora era il re – al presidente del consiglio in carica. Il giorno dopo, il 13, re Umberto lasciò per sempre l’Italia per andare in esilio in Portogallo. Lo fece per non far precipitare in una nuova guerra civile la sua Patria, dimostrando un altissimo senso di responsabilità e amore verso gli italiani. La Stampa di Torino titolò: “Il governo sanziona la vittoria repubblicana”, mettendo in dubbio la proclamazione stessa della repubblica. Perché neanche allora, lo si era capito. Poche ora prima di partire per il Portogallo, re Umberto in un proclama denunciò l’illegalità commessa dal governo e partì dopo aver affidato la patria agli italiani (e non ai suoi rappresentanti eletti). “Confido che la Magistratura, le cui tradizioni di indipendenza e di libertà sono una delle glorie d’Italia, potrà dire la sua libera parola; ma, non volendo opporre la forza al sopruso, né rendermi complice dell’illegalità che il Governo ha commesso, lascio il suolo del mio Paese, nella speranza di scongiurare agli Italiani nuovi lutti e nuovi dolori. Compiendo questo sacrificio nel supremo interesse della Patria, sento il dovere, come Italiano e come Re, di elevare la mia protesta contro la violenza che si è compiuta; protesta nel nome della Corona e di tutto il popolo, entro e fuori i confini, che aveva il diritto di vedere il suo destino deciso nel rispetto della legge e in modo che venisse dissipato ogni dubbio e ogni sospetto”.
Il governo aveva fretta di dichiarare la Repubblica
Come finì la storia? Che il 18 giugno la corte di Cassazione respinse tutti ricorsi e stabilì che per “maggioranza degli elettori votanti” si dovesse invece intendere “la maggioranza dei voti validi” e che quindi aveva vinto la repubblica. La vicenda ha una coda, perché nel 1960 in un’intervista il presidente della suprema corte quel 18 giugno, Giuseppe Pagano, disse che in quelle ore «l’angoscia del governo di far dichiarare la repubblica era stata tale da indurre al colpo di Stato prima che la Corte Suprema stabilisse realmente i risultati validi definitivi». Secondo l’alto magistrato, tuttavia, non vi furono brogli. Tra i “gialli” di questa storia vi sono anche il fatto che Tito aveva pronte le sue truppe per invadere l’Italia dalla Jugoslavia in caso della vittoria della monarchia; si disse che l’allora segretario del Pci Palmiro Togliatti intervenne presso Mosca per ritardare il rientro delle decine di migliaia di prigionieri italiani in Urss; i primi rapporti dei carabinieri, presenti nei seggi, sia al Vaticano sia al governo, indicavano una netta vittoria della monarchia, posizione poi misteriosamente invertitasi in poche ore; il numero degli elettori è sembrato poi superiore a quello degli aventi diritto al voto, comprensibile nel disordine dovuto al periodo bellico. Possibile anche che molti abbiano votato più volte con documenti di identità falsi o appartenenti a defunti o dispersi. Lo stesso Togliatti, infine, ministro della Giustizia, di fronte alle migliaia di ricorsi, disse che probabilmente le schede non sarebbero potute essere controllate perché alcune erano andate distrutte… Meglio la monarchia della repubblica? Certo non la monarchia italiana, meglio forse quella inglese. Però almeno, che ai nostri figli sia raccontata anche l’altra metà della storia.
Nella brutta alternativa che si impose a Sua Maestà Umberto II, il Sovrano scelse quella che riteneva la meno peggio per l’Italia: l’esilio, che sarebbe diventato eterno, per trentasette lunghi anni. E sappiamo come finí: mentre stava agonizzando desiderando di morire in Italia, il governo finse di nulla. Ed il Re “tolse il disturbo”. La repubblica perse l’ultima occasione di salvare la faccia.
Pochi giorni dopo il referendum, un uomo politico repubblicano disse a un ufficiale monarchico: “Il referendum fu un regolare duello. Ha vinto il migliore”. “Certo, un duello a dieci passi di distanza. Ma mentre la Monarchia si batteva alla sciabola, la repubblica si batteva alla pistola”.
Mario Salvatore Mana