Marocchino ucciso, la figlia di un ex collaboratore di giustizia: «È stato mio padre»

15 Mag 2017 14:55 - di Redazione

È stata la figlia di Marco Barba, ritenuto esponente della Sacra Corona unita di Gallipoli ed ex collaboratore di giustizia, ad accusare il padre dell’omicidio del marocchino Khalid Lagraidi, di 41 anni trovato senza vita il 31 gennaio scorso in un bidone di latta per combustibili nelle campagne della cittadina in provincia di Lecce. Sul corpo in stato di decomposizione c’erano tracce di acido. I carabinieri della Compagnia e del Comando provinciale hanno eseguito una ordinanza di custodia cautelare in carcere a carico dell’uomo, 44 anni, noto come “u Tannatu” (il dannato), già detenuto. Lagraidi scomparve il 23 giugno del 2016, qualche giorno dopo i parenti presentarono denuncia. Barba, pluripregiudicato, considerato appartenente al clan Padovano, ha già scontato una pena di 23 anni di reclusione per un altro omicidio commesso quand’era ancora minorenne. Successivamente alla scarcerazione intraprese la collaborazione con la giustizia, interrotta subito. Barba è attualmente recluso in carcere a Bari: lo scorso 3 dicembre è stato arrestato per tentata estorsione ai danni di un imprenditore, porto e detenzione di armi e stalking. Le indagini dei carabinieri sono scattate a seguito delle dichiarazioni accusatorie della figlia di Barba contro il padre e contro se stessa nella notte del 31 gennaio scorso. La ragazza ha rivelato ai militari particolari inquietanti e cruenti relativi dapprima all’adescamento del giovane marocchino, per giungere poi alla sua uccisione e all’occultamento all’interno di un bidone di latta, nelle campagne gallipoline. Secondo quanto accertato il movente sarebbe una partita di droga non pagata dalla vittima. Quella sera d’estate lei ed il padre sarebbero andati a prendere Lagraidi a Lecce, per portarlo in contrada Madonna del Carmine.

Omicidio del marocchino, parla la figlia del boss 

La figlia avrebbe visto in un primo momento i due uomini allontanarsi, per apprendere successivamente dal padre dell’avvenuta esecuzione. Il coinvolgimento della donna sarebbe invece consistito, secondo gli inquirenti, nel concorso con il padre nella soppressione del cadavere, per averlo riposto all’interno di un bidone di latta di colore verde, nascosto poi tra le sterpaglie, e per averlo cosparso con acido prelevato da circa un centinaio di bottiglie acquistate e predisposte. I carabinieri, accompagnati dalla donna sul posto, trovarono effettivamente il bidone di colore verde poco prima descritto. Una volta aperto il bidone, venne portato alla luce il cadavere poi esaminato anche dai militari della Sezione Investigazioni Scientifiche del Reparto Operativo del Comando Provinciale. A quel punto è iniziata la seconda fase delle investigazioni contrassegnata non solo dall’acquisizione di ulteriori fonti e dichiarazioni, per rendere ancor più solido il castello accusatorio, ma soprattutto dall’ausilio dei tabulati telefonici e delle intercettazioni ambientali. Gli inquirenti hanno accertato contatti telefonici tra il cellulare di Barba e quello della vittima anche il giorno della sua scomparsa.

L’analisi dei tabulati

Inoltre l’analisi dei tabulati ha dimostrato lo spostamento delle celle agganciate dall’utenza di Tannatu da Gallipoli verso Lecce e viceversa, proprio come il tragitto effettuato dall’indagato per andare a prendere la vittima per poi portarla nella Città Bella, così come riferito dalla figlia ai carabinieri. Barba è stato intercettato anche in carcere durante i colloqui, consentendo agli inquirenti di cristallizzare la premeditazione del delitto. È emerso, infatti, che il bidone di colore verde e le cento bottiglie di acido per la saponificazione del cadavere erano stati già preparati. Dall’ascolto delle conversazioni, ancora, sono emersi preziosissimi particolari circa le modalità dell’omicidio che solo l’esecutore materiale poteva conoscere, ancor prima che venisse eseguito il relativo esame autoptico. Lagraidi sarebbe infatti stato ucciso non per strangolamento, come Barba riferì alla figlia la notte del 23 giugno, ma per numerose ferite lacere contuse al cranio provocate da un corpo contundente, elementi solo successivamente confermati dal medico legale. Nell’incidente probatorio del 14 marzo scorso, infine, la figlia ha confermato davanti all’autorità giudiziaria le dichiarazioni precedentemente rilasciate ai carabinieri la notte del rinvenimento del cadavere, riconoscendo sia il bidone, sia Lagraidi quale vittima. Barba dovrà rispondere di omicidio aggravato dalla premeditazione e dai motivi abietti e futili, nonché per distruzione e soppressione di cadavere.

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