Con mammà fino a 50 anni: i giovani italiani condannati a non avere futuro
È passato ormai un decennio da quando l’allora ministro dell’Economia, Tommaso Padoa Schioppa, coniò l’espressione non proprio felice di «bamboccioni» per riferirsi ai giovani che tardavano a uscire di casa. A distanza di tanti anni, la situazione dei ragazzi italiani non solo non è migliorata, ma fa registrare un trend fortemente negativo: chi avrà vent’anni nel 2020 riuscirà a rendersi autonomo alla soglia dei 40, chi li avrà nel 2030 ci riuscirà solo alla soglia dei 50.
Lo studio sulla situazione dei giovani
Come dieci anni fa, però, quei ragazzi non meritano e non meriteranno l’etichetta di «bamboccioni»: la colpa di tanto ritardo nel rendersi autonomi infatti non è loro. O, per lo meno, non lo è prevalentemente. A confermarlo oggi è uno studio della fondazione Bruno Visentini, che è stato presentato alla Luiss e dal quale emerge, ancora una volta, che l’Italia non è un Paese per giovani. A pesare sul futuro sono le difficoltà a trovare lavoro e le disparità di trattamento tra generazioni.
Penultimi in Europa per equità intergenerazionale
Se le cose non cambieranno, spiega lo studio, ai ventenni del 2020 ci vorranno 18 anni per trovarsi nelle condizioni di “uscire di casa”. A quelli del 2030 ce ne vorranno addirittura 28. Un quadro drammatico, reso ancora più problematico dal cosiddetto indice di equità intergenerazionale, ovvero lo strumento che si usa per valutare quale sarà la situazione previdenziale dei giovani rispetto alle generazioni precedenti. L’equità intergenerazionale dovrebbe evitare l’accumulo di deficit previdenziale a svantaggio dei più giovani, solo che in Italia la faccenda va malissimo: siamo penultimi in Europa, con un indice di 130 a fronte di una media appena sopra i 100. Peggio di noi fa solo la Grecia con un indice di 150.
Bruciati 32,65 miliardi
Ma lo studio mette in evidenza anche l’altra faccia della medaglia: il costo economico – e si direbbe anche sociale – dei giovani che non vedono futuro o che lo vedono spostato sempre più in là. I “Neet”, i ragazzi che non studiano, non lavorano e non sono impegnati in un apprendistato ammonta a 32,65 miliardi di euro, un po’ meno del 2014, quando era di 34,6 miliardi, ma assai di più del 2008 quando i «bamboccioni» incidevano sul bilancio nazionale per 23,8 miliardi.
La necessità di un «patto tra generazioni»
La ricerca della fondazione Bruno Visentini, per la verità, indica anche una strada da seguire: rimodulare fisco a previdenza in una direzione di maggiore equità per i giovani. In concreto, lo studio propone una «rimodulazione dell’imposizione fiscale con funzione redistributiva» e la stipula di «un patto tra generazioni per evitare il rischio di una deriva dei Millennials». Un’alleanza che si potrebbe realizzare, per esempio, con «un contributo solidaristico da parte della generazione più matura che gode di pensioni più generose». La Fondazione propone anche un “piano operativo”: «per tre anni» al patto dovrebbero partecipare «i circa 2 milioni di cittadini pensionati sottoscrittori posizionati nella parte apicale delle fasce pensionistiche, con un intervento rigorosamente progressivo rispetto sia alla capacità contributiva, sia ai contributi versati». Si tratta, di fatto, della stessa proposta avanzata da Fratelli d’Italia già da qualche anno e rimasta però sempre inascoltata dalle altre forze politiche e, soprattutto, da quelle di governo.