Italia e italiani: tutti i nodi vengono al pettine

25 Gen 2017 12:40 - di Lino Lavorgna

«Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello!». Sono trascorsi oltre sette secoli da quando Dante denunciò il “decadimento” dell’Italia a causa della corruzione dilagante e delle lotte intestine e i versi sono quanto mai opportuni per caratterizzare anche l’Italia di oggi, che sprofonda sotto il peso di un dissesto con radici antiche. Non quello idro-geologico, come riportano le quotidiane cronache, ma umano.

Un popolo intero, eccezion fatta per i diretti interessati e i sodali di ogni ordine e grado, spara ad alzo zero contro governo e protezione civile, lamentandone l’inadeguatezza. Troppo facile. Non occorre avere una laurea in psicologia per stabilire l’inadeguatezza al ruolo di un Gentiloni: basta ascoltare il tremore della sua voce. E non servono certo le tristi prove di questi giorni per lasciare affiorare i limiti di una struttura vessata dalla malapolitica. Criticare è facile; l’autocritica un po’ più complicata. Ammettere, poi, che siamo i primi responsabili del male che ci capita, per le scelte sbagliate quando eleggiamo i nostri rappresentanti e per modalità comportamentali molto discutibili, quasi impossibile. Eppure è tutto maledettamente semplice. Quante vite si sarebbero risparmiate se non si fosse mai praticato l’abusivismo edilizio? Quante vite si sarebbero risparmiate se in posti delicati, invece di mezze cartucce come quelle che si vedono nei film catastrofici americani, che sistematicamente ignorano gli allarmi, vi fossero persone “adeguate al ruolo?”. Due esempi tra i mille che si potrebbero citare, solo per restare sul tema della cronaca attuale. E così, tra un disastro e l’altro, andiamo avanti, accendendo candeline sui social e vomitando sdegno, tanto per sentirci con la coscienza a posto, salvo poi essere i primi a reiterare comportamenti che di immani sciagure sono la causa principale. Una peculiarità degli italiani è la capacità di predicare bene e razzolare male, magari dando senso a ciò che senso non ha. Sembra una battuta, ma è una tragica realtà che condiziona, e non poco, la vita di milioni di persone. E’ una fenomenologia comportamentale che all’estero non si riesce proprio a comprendere e che, purtroppo, viene banalizzata con quel (pre)giudizio negativo, semplicistico, che ben conosciamo e che di certo non ci fa piacere. E’ insita nel DNA da tempo immemore e ha assunto maggiore consistenza a mano a mano che l’Italia si trasformava in terra di conquista da parte dei popoli europei, dando forma, da Nord a Sud, a quel “tipo italiano” che, lungi dall’assumere una caratura “nazionale” univoca, rispondeva in modo difforme ai condizionamenti imposti dai conquistatori. Tale processo, naturalmente, non è stato lineare e non ha coinvolto tutti i soggetti indistintamente, sfociando anche in un confronto-scontro tra coloro capaci di preservare il retaggio ancestrale e coloro che, con estrema facilità, “adattavano” la propria condizione umana alle nuove sollecitazioni ambientali. Generazione dopo generazione, quindi, si sono formate quelle variegate tipologie umane che sopravvivono tuttora. Il plurale è d’obbligo, naturalmente, perché il territorio non ha mai espresso un popolo “unico” e, come ben sappiamo, l’unificazione ha avuto una valenza solo geografica, non bastevole a sanare l’abissale divario economico e culturale che differenzia il Nord dal Sud. Le due aree geografiche, infatti, subirono condizionamenti diversi, per poi saldarsi in una omologazione negativa dopo il boom post bellico. Il retaggio celtico e germanico, ampiamente diffuso al Nord, creò un “tipo italico” che di quel substrato è erede naturale. Nel Sud, viceversa, si registrò uno scontro tra diversi colonialismi, che formarono, in negativo e in positivo, i tipi umani che si sono succeduti nel corso dei secoli. Sicuramente negativo è il retaggio bizantino, che depredò il Mezzogiorno di ogni possibile risorsa, lasciando in loco i germi levantini della propensione al crimine. Alla stessa stregua possiamo considerare il lascito angioino, quello aragonese, lo spagnolo. Con queste dominazioni assistiamo al decadimento sotto qualsivoglia punto di vista e alla genesi di un concetto che prende corpo in modo sempre più diffuso: “il male può essere bene”. Ostrogoti, Longobardi, Normanni, Svevi, viceversa, lasciarono in eredità un Dna sostanzialmente positivo. Nel Sud, quindi, si crearono due classi “umane ben distinte”, almeno in fieri. E’ ben chiaro, infatti, che il condizionamento ambientale può incidere sensibilmente sui comportamenti, a prescindere dal retaggio ancestrale. Sarebbe oltremodo scorretto, pertanto, affermare che tutti i discendenti degli spagnoli, degli aragonesi e degli angioini siano la classe peggiore della società contemporanea e gli altri i migliori. Una significativa analisi delle fenomenologie comportamentali “tipicamente italiane” è possibile analizzando le vicende storiche del quindicesimo secolo, caratterizzate dalla impressionante frammentazione territoriale.

Carlo VIII, Re di Francia, in virtù del legame dinastico con gli Angioini, pensò bene di andare a riprendersi il Regno di Napoli. Non sarebbe stata proprio una bella passeggiata se non avesse potuto contare sull’accoglienza gaudente di tutti i regnanti che incontrava per strada. A Ludovico il Moro non parve vero di rendergli onore in pompa magna, pur di farsi aiutare a eliminare il nipote Gian Galeazzo Maria Sforza. (Nota di colore, anch’essa significativa: Ludovico, sposato con Beatrice d’Este, aveva la sua corte di “donnine allegre”. Due di loro addirittura hanno conquistato imperitura fama grazie alla magistrale arte di Leonardo: “La Dama con l’ermellino” e “La Belle Ferronnière”. Di sua moglie, beatificata cinque secoli dopo la sua morte, non dico nulla, lasciando a storici autorevoli il compito di chiarire gli errori contenuti nella frase “vissuta santamente”, che traspare da ogni sua biografia). Terminati i bagordi a Milano, il Re francese proseguì verso Firenze. Una guerra, in genere, si combatte con le armi. Quella di Carlo VIII, però, è passata alla storia come la “guerra del gesso”: i soldati avevano il solo compito di apporre una “X” sulle case requisite per alloggiarvi. Piero dei Medici assomigliava a tante “macchiette” contemporanee che siedono in parlamento. Noto come “Piero il Fatuo” o lo “Sfortunato”, fin da giovinetto fu educato a ereditare dal padre la guida della città e la banca di famiglia: compiti troppo ardui per lui, privo di talento e di carisma, pronto a dire oggi il contrario di quel che aveva sostenuto ieri. A Carlo VIII offrì più di quanto egli stesso si aspettasse, senza rinunciare a inginocchiarsi per baciargli le babbucce. Acquisita anche Firenze, Carlo giunse serenamente a Napoli, accolto da una folla festante, incitata dai soliti furbastri sempre pronti a orientare le vele a favore del vento più propizio. Re Alfonso II d’Aragona scappò a gambe levate appena sentì profumo francese, lasciando sul trono il figlio mezzo scemo Ferrandino, che a sua volta se ne scappò prima a Ischia e poi a Messina. Nello Stato Pontificio regnava il famigerato Papa Alessandro VI, per secoli il più grande puttaniere della storia dell’umanità. In un primo momento, sia pure con riluttanza, aveva dato semaforo verde alle truppe di Re Carlo, ma poi gli venne una diarrea cronica al pensiero che egli non si accontentasse di Napoli e facesse un pensierino anche su Roma. E che fa un buon italiano quando si sente che stanno per fregargli la poltrona? Si appella “allo spirito nazionale”, invoca l’aiuto di Dio Padre Onnipotente contro il “tiranno” (che è sempre quello che vuole fregargli la poltrona), chiede aiuto ai compagni di merende, magari fetenti quanto lui. Se vi è un rompiballe da fermare, tutto fa brodo. Ecco che prende corpo, quindi, in men che non si dica, la “Lega Santa”: una sorta di Nazionale Europea Bellica comprendente le truppe pontificie, Spagna, Massimiliano d’Asburgo, Milano, Venezia e un bel po’ di Italici staterelli. Mamma mia! Povero Re Carlo! Capì che la pacchia era finita e con la coda tra le gambe risalì le valli discese con baldanzosa sicumera. L’esercito della Lega lo aspettò sulle colline della bassa valle del fiume Taro, in zona Fornovo, e fu lì che ebbe luogo la celebre battaglia, il 6 luglio 1495. Poco meno di diecimila francesi, con scarsi approvvigionamenti, in ritirata, fronteggiati da un esercito di venticinquemila uomini, armati di tutto punto e ben schierati. I bookmaker, se fossero esistiti allora, avrebbero giudicato l’evento non disponibile per le scommesse. Tutti pensavano, infatti, che nessun francese avrebbe rivisto il patrio suolo. E pensavano male. Le perdite francesi furono sì ingenti, ma quelle della Lega addirittura il doppio e Sua Maestà, il “bottino prelibato”, riuscì ad aprirsi un varco e riparare in Francia con i superstiti. Non vi era un arbitro perché in guerra non si usa; se vi fosse stato, però, non poteva che assegnare la vittoria ai francesi! Francia batte Lega Santa, dunque. Almeno così dovrebbe essere secondo logica. Basta andare al Louvre, tuttavia, per vedere il bellissimo quadro realizzato dal Mantegna, su commissione di Francesco II di Gonzaga, per celebrare “la vittoria italiana a Fornovo sul Taro!” La storia è sempre la stessa e si ripete con metodica frequenza. Sic est Italia e non è il caso di farci illusioni. Il popolo Italiano è un popolo complesso, che risponde a tante anime, sostanzialmente diverse tra loro e caratterizzate da profonde distonie culturali anche quando afferiscono a una stessa area o a uno stesso ceppo.

L’odio e la cattiveria non sono assenti in questo panorama non certo idilliaco e sono pochi coloro che possano dirsi immuni da tali devastanti pulsioni. Il processo di emancipazione, ancorché possibile, richiede tempi lunghissimi e sconvolgimenti pazzeschi. Non si correggono facilmente secoli di brutte abitudini e l’anelito di speranza è dovuto solo alla consapevolezza che, nonostante tutto, vi sono e vi sono sempre stati coloro che hanno rappresentato una eccezione rispetto alla regola. E proprio grazie a costoro che la fiammella non si è spenta e mai si spegnerà. Sono dei “rari nantes in gurgito vasto” che si perpetuano secolo dopo secolo, fungendo da esempio e preservando il tanto di buono che è stato prodotto. Giorno verrà che da eccezione diverranno regola, anche se nel frattempo tanti di loro dovranno pagare il fio per essere diversi e migliori. Un fio, però, che viene pagato con il sorriso sulle labbra perché, come disse qualcuno, amare l’Italia ha un costo, ma ne vale la pena.

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