Cerimonia Trump, le star restano a casa. In scaletta solo artisti patriottici
L’arte come la prosecuzione della lotta politica con altri mezzi. Già l’intreccio tra Palazzo e star system non è un’esclusiva italiana. Più e peggio di noi stanno gli Usa. Ed è quanto dire dal momento che ancora dobbiamo smaltire la sbornia dei “girotondi” di Nanni Moretti, dei Rockcafè di Adriano Celentano, dei docufilm di Sabina Guzzanti senza ovviamente tralasciare le invettive in “dolce stil novo” di Roberto Benigni e al netto di ogni furbacchione consapevole in quegli anni che la via per la celebrità, più che per il talento, passava per la denigrazione dell’odiato Cavaliere. Una nemesi per lui che da leader avrebbe reso lo spettacolo, inteso come la capacità di stupire, una delle armi taglienti e vincenti della politica. Peggio di noi, si diceva, l’America ora nelle mani di Donald Trump, un altro tycoon che ha già sperimentato in campagna elettorale la crisi di rigetto delle star di Hollywood (De Niro voleva scazzottarlo e Madonna aveva garantito prestazioni orali, non di tipo canoro, a chiunque avesse votato per Hillary) e ora costretto a raschiare il fondo del barile del patriottismo artistico per la sua cerimonia d’insediamento. Vi si contano più le defezioni che le adesioni. Altra musica, è il caso di dire, con Barack Obama che il pieno lo ha fatto due volte. Vuoi mettere? A momenti Obama riceveva il Nobel per la Pace prima di mettere piede alla Casa Bianca. Come avrebbe potuto una Meryl Streep o un Bono non accorrere alla sua chiamata? Trump è diverso: innanzitutto è wasp e non black, poi è per l’industria e non crede al surriscaldamento del pianeta. In più vuole reintrodurre i dazi per trattenere le imprese (e il lavoro) in America rinunciando a quella nobile e solidaristica disoccupazione da globalizzazione che tanto piace al filantropo George Soros e ai suoi prezzolati intellò. Davvero troppo perché i candidi e disinteressati artisti a “stelle e a strisce” possano esibirsi per lui senza cadere preda di furiosi e indomabili conati di vomito. E chi, come il nostro Andrea Bocelli, un poco s’era lasciato irretire dalla dimensione ormai presidenziale di Trump o dalla sua legittimazione popolare, è stato costretto a inventarsi scuse e dare forfait. Ancora peggio è andata alla cantante Jennifer Holliday, costretta dalle insolenze di lesbiche e gay a rivedere il suo «sì» all’invito di Trump. Vista l’autorevolezza del pulpito insultante, le è stata persino imposta un’autocritica di sapore vagamente staliniano: «Credevo di cantare per la gente e per gli Stati Uniti. Non mi sono resa conto che la mia partecipazione sarebbe stata interpretata come un atto politico». Prima di lei avevano sdegnosamente declinato l’offerta band come i Beach Boys e Dixie Chicks, cantanti come l’inglese Rebecca Ferguson e Garth Brooks, leggenda della musica country. I temerari che hanno accettato – Toby Keith e Lee Greenwood, i gruppi rock 3 Doors Down e The Piano Guys – si sono trincerati dietro il dovere patriottico (negli Usa conserva un certo fascino). Grazie a loro, ad accogliere Trump non ci saranno solo le sei canoniche bande militari. Ma un ringraziamento speciale lo merita di certo la 16enne Jackie Evancho: non solo perché avrà l’onore di cantare l’inno nazionale ma per come ha saputo difendersi dall’accusa di essere una traditrice: «Ho 16 anni e non faccio politica». God bless America. E Trump.