Il dilemma della destra sempre in bilico tra avvenire e nostalgia

16 Nov 2016 12:23 - di Antonio Cilento

Che cosa resta della destra politica italiana? L’interrogativo passa spesso nella mente degli osservatori e (forse) nei cuori degli ex elettori: se non rimane inevaso, la pluralità delle risposte certo non rassicura, spaziando dal riferimento alla ormai mitica “destra diffusa” fino all’irrimediabile conclusione dell’assenza di ogni prospettiva, per inadeguatezza rispetto allo Zeitgeist, lo spirito ei tempi.
Anche a voler ammettere l’invecchiamento della categoria in seguito alle rivoluzioni di Renzi e di Grillo, il dato dell’astensionismo ha la “testa dura” e rivela sia l’insufficienza dell’offerta politica attuale sia la valenza strategica di quella parte di elettorato, oggetto delle attenzioni del presidente del Consiglio.

La destra deve accettare le sfide della modernità

Il centrodestra post-elezioni 2013, entusiasmi trumpisti a parte, non sembra fornire risposte adeguate a fronte della complessità del contesto geopolitico e macroeconomico. Il risultato è lo svuotamento della rappresentanza politica a destra, consegnata a una deriva regressiva non solo rispetto alla storia della destra di governo ma anche in riferimento all’elaborazione di politiche innovative su temi come demografia, immigrazione e integrazione, libertà economiche, welfare, diritti civili o alle politiche relative alla Ue e ai rapporti con le famiglie politiche europee. Il vero deficit, tuttavia, riguarda la capacità di interpretare politicamente un’alleanza sociale storicamente maggioritaria in Italia. Insomma, si può commemorare tutto, ma non portare le lancette indietro rispetto agli effetti politici di Fiuggi, Verona, Ppe, Pdl. Il panorama attuale è caratterizzato da un partito incolore e onnicomprensivo, destinato a governare comunque, una sorta di Dc 2.0 senza la cultura del popolarismo; un insidioso polo di protesta rappresentato dal M5S; una destra e una sinistra residuali, forze di opposizione ma non di alternativa. Oggi come anni fa, l’assenza di una destra politica di governo blocca il sistema. Sciogliere questi nodi è prioritario rispetto al tema della leadership. Parte del mondo postmissino attribuisce la propria scomparsa politica a Gianfranco Fini, nei confronti del quale si è andati ben oltre il letterario “servo encomio e codardo oltraggio”.

Decisiva, per ripartire, la sfida referendaria

È singolare l’ostracismo di chi si fregia di appartenere a una comunità di combattenti e accredita ad un solo uomo una tale vis distruttiva. Così come stupisce che i cultori della nobiltà della sconfitta siano stati zelanti nel successo e altrettanto solerti nell’infierire da altri ombrelli protettivi. È bizzarro che della intera stagione di governo, la matrice della destra emerga in sostanza da due leggi, che recano entrambe la firma del “traditore”. Ma al di là di questi aspetti, quel che rileva è che le idee di una certa destra si affermano in un orizzonte ampio, non auotoreferenziale e vivono se costantemente messe alla prova delle sfide della contemporaneità, senza cavalcare le proteste quotidiane. Rimuovere quella esperienza, soprattutto sotto il profilo della cultura delle istituzioni e dell’autorevolezza internazionale, è politicamente miope. La questione del rinnovamento della classe dirigente deve fondarsi su un patto intergenerazionale fondato sulla qualità, per non trovarsi di fronte ad alternative specularmente sbagliate: abolire ciò che è esistito prima o abbarbicarsi alle posizioni ricoperte. Dopo il referendum occorrerà lanciare un segnale a quell’arcipelago di pensiero più o meno organizzato, che non si rassegna alla vocazione minoritaria dell’attuale centrodestra. Indugiare nel limbo non renderebbe un buon servigio né alla nostalgia né all’avvenire.

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