ISIS perde ma i miliziani restano: come cambia la minaccia islamista

19 Ott 2016 8:15 - di Redazione

Le ultime notizie da Iraq e Siria fanno giustamente pensare che la parabola dello Stato Islamico sia in fase calante. L’imminente avanzata su Mosul, ultima delle città irachene ancora controllata dal Califfo, e in Siria la perdita di Dabiq – luogo della battaglia finale tra Bene e Male nella simbologia dello gruppo – fanno intravedere, pur tra mille incertezze, la fine del Califfato come entità territoriale, si legge su “la Stampa“.

Parabola dell’ISIS è in fase calante

Mille fattori, da alcuni puramente locali ad altri dettati dai giochi delle grande potenze mondiali, influenzeranno quello che succederà nei territori attualmente controllati dal Califfo dopo la sua caduta. Ma una cosa sola pare certa: almeno nel breve termine vedremo un periodo di caos su tré livelli: locale, regionale e globale. A livello locale, è difficile pensare che la perdita di territorio equivalga alla totale evaporazione dello Stato Islamico. In una sorta di 8 settembre in salsa mediorientale molti dei suoi soldati si toglieranno la divisa e getteranno le armi, e molti di loro non sfuggiranno a sanguinose ritorsioni. Ma è molto probabile che il gruppo ritornerà a essere quello che era agli albori, e cioè una letale forza insorgente che, pur non riuscendo più a controllarlo, insanguinerà il territorio con attacchi terroristi e azioni mordi e fuggì. Sfruttando le tensioni settarie che persisteranno anche dopo la fine del Califfato, i miliziani dello Stato Islamico proveranno a destabilizzare le regioni che le già deboli e frammentarie truppe della quanto mai eterogenea coalizione anti-Isis avranno recuperato.

I soldati del Califfato lasceranno Siria e Iraq

Alcuni si ripareranno negli Stati delle regione, Turchia, Giordania e Libano in primis. Non è difficile prevedere il potenziale sconquasso che porteranno nei già fragili equilibri locali. Altri reduci cercheranno di replicare l’esperienza dello Stato Islamico in territori dove altri gruppi jihadisti sono attivi e dove i governi locali stentano ad esercitare un seppur minimo controllo: Libia, Yemen, Somalia, Sahel, Sinai. Altri ancora torneranno nei propri paesi di origine. Solo alcuni tra gli ex foreign fighter del Califfato decideranno di imbracciare le armi anche una volta tornati a casa. Ma se anche solo una minoranza tra le decine di migliaia di jihadisti di ritorno lo facesse le conseguenze sarebbero devastanti. Si stima, per esempio, che circa settemila tunisini abbiano combattuto in Siria. Cosa succederebbe se anche solo duemila, dopo anni di esperienza sui campi di battaglia siriani, decidessero di attaccare il debole equilibrio democratico di quello che è considerato l’unico successo della cosiddetta Primavera Araba? O che impatto avrebbe sulla Russia il ritorno dei circa tremila militanti ceceni e caucasici, assetati di vendetta contro Putin per il suo supporto al regime di Bashar al-Assad? Da questo ipotetico ma alquanto concreto scenario non è esclusa nemmeno l’Europa. Alcune stime parlano di ottomila foreign fighter europei. Alcuni verranno uccisi nelle ultime battaglie del Califfato. Altri sceglieranno di continuare il proprio jihad in altri scenari mediorientali. Ma tanti torneranno in Europa.

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