Carminati, i fumosi teoremi dell’Espresso: così Abbate soccorre la Procura

26 Ott 2016 17:05 - di Paolo Lami

Fa acqua da tutte le parti il fantasioso teorema dell’Espresso secondo il quale Massimo Carminati, grazie a presunti documenti che avrebbe trovato nel 1999 nelle cassette di sicurezza del caveau dell’agenzia della Banca di Roma interna al Tribunale Penale capitolino svaligiato, avrebbe ricattato i magistrati ottenendo assoluzioni ai suoi processi, segnatamente quelli per l’omicidio Pecorelli.
Nella famosa lista dei derubati eccellenti e che, sempre secondo il giornalista Lirio Abbate, avrebbero avuto documenti talmente scottanti tali da renderli ricattabili, compare solo uno, l’attuale vicepresidente della Corte Costituzionale, all’epoca uno dei nove magistrati del collegio delle Sezioni Unite Penali della Cassazione, il dottor Giorgio Lattanzi, fra le decine e decine di persone che si sono occupate nei vari gradi di giudizio delle vicende processuali di Carminati successivamente al furto. E, quindi, sempre seguendo il ragionamento di Abbate, potenzialmente ricattabile.
Vediamo, invece, come sono andate effettivamente le cose seguendone la successione cronologica.
Il 19 luglio 1999 viene compiuto il furto all’interno del Caveau al Tribunale Penale di Roma a piazzale Clodio. Vengono svuotate 147 delle 800 cassette di sicurezza. I rapinatori si appropriano di circa dieci miliardi di vecchie lire, l’equivalente di circa 5 milioni di euro attuali. Le successive indagini consentono di accertare che due dei carabinieri arrestati e che avrebbero contattato Carminati e i cosiddetti “cassettari“, cioè gli specialisti dell’apertura delle cassette di sicurezza, proponendo loro il colpo al Tribunale di piazzale Clodio, avevano già tentato un furto, 9 mesi prima, il 3 ottobre 1998, presso l’ufficio postale interno del palazzo della Cassazione, a piazza Cavour a Roma utilizzando la fiamma ossidrica per aprire la cassaforte.
Secondo il teorema del giornalista dell’Espresso, Lirio Abbate, Massimo Carminati avrebbe in mano quei documenti scottanti con i quali ricattare i magistrati proprio da quel momento, dal 19 luglio, 1999, giorno dell’irruzione dei cassettari al caveau dell’agenzia della Banca di Roma interna al Tribunale penale di Roma, a piazzale Clodio.
È da quel giorno in poi, dunque, che, secondo la teoria dell’Espresso, bisogna guardare con attenzione alle mosse dei magistrati che si occupano di Carminati, e che, magari chiederanno pene o commineranno sentenze che L’Espresso e Lirio Abbate ritengono troppo leggere o chiedono il proscioglimento o l’assoluzione di Carminati.
Passano poco più di due mesi – esattamente 67 giorni – dal furto al caveau di piazzale Clodio ed ecco che il 24 settembre 1999 al termine del primo grado di giudizio al processo per l’omicidio Pecorelli per il quale Carminati è accusato, dai pentiti, di essere uno dei due esecutori materiali del delitto – 162 udienze in tre anni di processo – viene emessa la sentenza di assoluzione per tutti gli imputati “per non avere commesso il fatto“. Compreso dunque Massimo Carminati.
Il 17 novembre 2002 secondo round: la Corte d’Assise d’appello di Perugia condanna Andreotti e Badalamenti a 24 anni di reclusione come mandanti dell’omicidio ma conferma, invece, l’assoluzione per i presunti esecutori materiali del delitto, cioè Massimo Carminati e Michelangelo La Barbera.
Il 30 ottobre 2003, infine, è la Corte di Cassazione a mettere la parola fine alla vicenda annullandosenza rinviola condanna inflitta, in appello, ad Andreotti e Badalamenti.
Ripercorriamo ora la vicenda applicando, passo passo, il teorema di Lirio Abbate e dell’Espresso: con i presunti documenti del caveau di piazzale Clodio in mano, Carminati avrebbe corrotto i magistrati che si sono occupati di lui dal 19 luglio 1999, giorno del clamoroso furto, in poi.
Il 24 settembre 1999, due mesi dopo il furto, il dottor Giancarlo Orzella, presidente, il dottor Nicola Rotunno, giudice e i giudici popolari, la dottoressa Anna Rita Cataldo, la signora Ivana Bei, il signor Gilberto Gatticchi, il signor Alberto Alunni, il dottor Marcello Ficola, e il signor Stefano Avellini, un’avvocatessa, un’operaia, un carrozziere, un pensionato, un imprenditore e un’operaio, tutti componenti del Collegio della Corte di Assise di Perugia, assolvono i sei imputati per non aver commesso il fatto. Alle spalle, come detto, 162 udienze e tre anni di processo.
Dunque, secondo il teorema di Lirio Abbate, la decisione di quei due magistrati, Giancarlo Orzella e Nicola Rotunno, e dei 6 giudici popolari – stiamo parlando di un intero collegio di Corte d’Assise – non fu dovuta a un libero convincimento ma fu, invece, determinata dalla paura di quei presunti documenti che Massimo Carminati avrebbe avuto in mano.
In sostanza, secondo la ricostruzione dell’Espresso, le 8 persone si fecero corrompere. E, per questo, Carminati ottenne l’assoluzione. Che arrivò, per inciso, non dopo qualche ora ma dopo 4 giorni di Camera di Consiglio. Una decisione, dunque, più che ragionata.
La fantasiosa ricostruzione di Lirio Abbate fa acqua da tutte le parti: né Giancarlo OrzellaNicola Rotunno sono nella lista, pubblicata dall’Espresso, delle persone derubate che avevano cassette di sicurezza all’interno del caveau dell’agenzia della Banca di Roma di piazzale Clodio e quindi non si capisce cosa avessero, eventualmente, da temere da Carminati.
Altrettanto incomprensibile è la posizione dei giudici popolari nella visione onirica di Lirio Abbate: non erano magistrati ma cittadini qualunque presi a caso, non avevano cassette di sicurezza nel caveau della banca svaligiata, non avevano alcuna attinenza con Massimo Carminati. Perché mai avrebbero dovuto prosciogliere Carminati se non fossero stati intimamente convinti di farlo? Che potere di ricatto poteva avere Carminati verso di loro?
Poniamo anche il caso – non dimostrato da Lirio Abbate né dall’Espresso nell’articolessa – che anche solo uno degli 8 componenti del Collegio avesse una cassetta di sicurezza fra le 147 svaligiate da Carminati: avrebbe dovuto convincere gli altri 7 membri del Collegio a prendere una decisione diversa da un’eventuale condanna.
Ma, come detto, Lirio Abbate e L’Espresso pubblicano la famosa (e peraltro già depositata agli atti del processo all’epoca, altroché scoop) lista dei derubati ma non dimostrano alcun collegamento con le persone del collegio. E non vi è alcuno dei nomi dei componenti del Collegio di Corte d’Assise di Perugia nella lista pubblicata.
E, infine, anche se avessero tutti temuto Carminati e le sue presunte carte scottanti, quale senso poteva avere prosciogliere tutti gli altri imputati in blocco?
La Corte avrebbe potuto tranquillamente prosciogliere solo Carminati nel caso in cui si fosse sentita sotto ricatto per quelle carte e condannare, viceversa, tutti gli altri imputati.
Invece il processo di primo grado finì in una bolla di sapone inconsistente e fragile almeno quanto l’articolo dell’Espresso.
La Corte non fu tenera con i pm: concluse per «l’inattendibilità» dei pentiti sui quali si basava il castello accusatorio. Parlò, inoltre, di «mancanza di elementi probatori» dichiarazioni «prive di riscontri». Ed elencò una per una le prove mancanti concludendo che non è possibile «colmare, neppure con criteri logici, le lacune probatorie sopra indicate».
Sistemato il teorema dei magistrati, per soprammercato la Corte ordinò anche «la trasmissione degli atti relativi alle deposizioni di Fabiola Moretti (la sedicente pentita della Banda della Magliana sulle cui dichiarazioni era stato fondato parte del castello accusatorio) rese sia in dibattimento che nella fase delle indagini preliminari in ordine al reato di cui all’articolo 372 codice penale», cioè la falsa testimonianza.
Una catastrofe giudiziaria per i pm, insomma. Non poteva andare peggio di così.
Ma andiamo avanti e tentiamo di seguire ancora i voli pindarici di Lirio Abbate.
Tre anni più tardi, il 17 novembre 2002, tocca alla Corte d’Assise d’Appello di Perugia, a conclusione del dibattimento di secondo grado, fare strame del convincimento della pubblica accusa e dei pentiti che sono alla base del castello accusatorio.
Secondo il teorema di Lirio Abbate in questo caso furono ancora sei i giudici popolari, Tiziana Colonnelli, Piero Borri, Alessandra Fossati, Maria Cristina Valeri, Gianfranco Costarelli, Giuseppe Fioroni oltre, naturalmente, al presidente del Collegio, il Dottor Gabriele Lino Verrina e al giudice, il Dottor Maurizio Muscato, ad assolvere Massimo Carminati perché intimiditi (o corrotti?) da quelle carte che l’imputato avrebbe avuto a disposizione fin dal luglio 1999 per assicurarsi le assoluzioni o un trattamento benevolo nei processi ricattando i magistrati.
Valgono, qui, le stesse considerazioni – ed è perfino superfluo ripeterle – esposte nel caso della sentenza di primo grado.
Finora, nella bizzarra ricostruzione dell’Espresso, sarebbero almeno 16 le persone, fra magistrati e giudici popolari, che, temendo le presunte carte in mano a Carminati, gli avrebbero garantito l’assoluzione. Nessuna di loro era proprietaria, secondo la lista dell’Espresso, di una delle cassette che Carminati avrebbe svaligiato.
Se non è fantascienza, ci siano molto vicini.
Ma c’è anche la Cassazione che ha fatto la sua parte nel demolire le chiacchiere dei pentiti e il castello accusatorio della pubblica accusa per il processo Pecorelli.
Il 30 ottobre 2003 la Corte Suprema di Cassazione a Sezioni Unite Penali, la massima espressione della giurisprudenza italiana in materia di legittimità procedurale – dottor Giovanni Canzio, consigliere estensore e dottor Nicola Marvulli, presidente – si trova d’accordo con il Procuratore Generale della Cassazione, Gianfranco Ciani: l’assoluzione di Carminati va confermata. In questo caso, poiché la decisione viene presa a Sezioni Unite Penali, i magistrati che mettono la pietra tombale definitiva sulle chiacchiere dei pentiti e sulla loro fantasiosa ricostruzione dei retroscena dell’omicidio Pecorelli, sono addirittura 9. Assieme al presidente Nicola Marvulli e al relatore Giovanni Canzio (oggi primo presidente della Corte di Cassazione) ecco gli altri componenti del collegio dell’epoca: il dottor Renato Teresi, il dottor Giuseppe Cosentino, il dottor Giorgio Lattanzi (oggi Vicepresidente della Corte Costituzionale), il dottor Renato Calabrese (deceduto nel 2012), il dottor Giovanni Silvestri (scomparso nel 2013), il dottor Francesco Marzano, il dottor Nicola Milo (messo più volte in croce dai giustizialisti di sinistra che lo incolpano di essere troppo rigoroso).
Nove persone, nove magistrati, che, secondo il teorema di Lirio Abbate, erano sotto ricatto. Senonché solo uno di loro è nella lista pubblicata dall’Espresso, cioè dei proprietari di cassette svaligiate da Carminati. Ed è Giorgio Lattanzi, oggi vicepresidente della Corte Costituzionale. Che sia lui uno dei ricattati a cui allude, fra mille giri di parole, Lirio Abbate?
Interpellato dall’Espresso, Lattanzi ha fatto sapere di aver subito denunciato il fatto all’epoca e di non aver avuto alcun documento in quella cassetta svaligiata ma solo soldi. Denaro che, poi, gli venne risarcito dall’assicurazione.
Dunque, seguendo il teorema Abbate, Lattanzi avrebbe dovuto convincere non solo gli altri 8 membri del collegio a Sezioni Unite Penali della Cassazione ma perfino il Procuratore Generale Gianfranco Ciani che pure si espresse esattamente come decisero, successivamente, i nove componenti del collegio di Sezioni Unite Penali della Suprema Corte. Senza contare i giudici dei due gradi di giudizio precedente.
A questo punto facciamo un po’ di conti: fra Corte d’Assise di Perugia, Corte d’Assise d’appello di Perugia e Sezioni Unite Penali della Cassazione, nonché Procuratore Generale della Cassazione, sono 26 le persone, fra togati e giudici popolari, che si sono espressi a favore dell’assoluzione di Massimo Carminati. Disgraziatamente per Lirio Abbate e per L’Espresso, solo una di queste persone è nella lista dei derubati pubblicata dal settimanale. Un po’ complicato per quell’unico derubato convincere le altre 25 persone ad esprimersi a favore del presunto – molto presunto, a questo punto – “ricattatore”.
Resta da chiedersi il motivo per cui L’Espresso e Lirio Abbate – che, qualche tempo prima degli arresti dell’inchiesta Mafia Capitale, anticipò, per filo e per segno, con sorprendente precisione esattamente quello che poi la Procura di Roma avrebbe ipotizzato nella sua inchiesta – abbia tentato, proprio ora, di accreditare questo teorema di un Carminati ricattatore grazie alle presunte carte trovate nelle cassette di sicurezza del caveau del Tribunale di Roma. Perché questo teorema? E perché proprio ora che il processo in corso, testimone dopo testimone, fatica a restituire una coerenza probatoria con il quadro di un castello accusatorio in cui la Capitale – e segnatamente l’amministrazione della Capitale – così ipotizza l’accusa, sarebbe stata in mano a una cupola mafiosa ai cui vertici ci sarebbe stato Carminati e Salvatore Buzzi sarebbe stato solo un semplice, marginale, picciotto, quasi un portaborse di Carminati, e la sinistra, uno spettatore inconsapevole? Forse, allora, vale la pena di leggerlo così, in controluce, il teorema di Abbate e dell’Espresso. Un teorema che può tornare utile a un altro teorema. Quello di Mafia Capitale. Il problema è che la Giustizia non si fa con i teoremi. E neanche il giornalismo d’inchiesta.

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