Alla ricerca di una politica industriale per il nostro Paese (evitando gli errori)

7 Set 2016 12:42 - di Enea Franza

Per lo sviluppo economico di un Paese, gli errori dei politici, voluti o anche semplicemente legati ad ignoranza, ricadono tutti sui cittadini e si pagano a caro prezzo. Ritenere, come purtroppo si è pensato in questi anni, che, per il fatto di essere in un mercato comune, non si ha necessità di una attiva politica industriale è uno degli errori più gravi che ci siano capitati. Eppure, da non pochi anni (Monti, Letta e, da ultimo, Renzi, solo per citare i più recenti) assistiamo ad interventi di politica industriale fatta di molti mix e molti patchwork che, tuttavia, non sembrano avere alcun filo conduttore.

La politica industriale e le teorie economiche

Sul punto, per la verità, non è che la scienza economica aiuti molto. In effetti, la teoria dell’economia industriale sebbene fornisca almeno tre ragioni principali all’intervento del governo nell’economia (i fallimenti del mercato, i cambiamenti nei vantaggi comparati e quelli strutturali), tuttavia, diverge sulle politiche da prescrivere in particolare sull’ultimo punto, dando un contributo ad una generale confusione. Tuttavia, che essa sia necessaria non c’è discussione ed i politici di destra, centro o sinistra, statalisti o libertari che siano, non hanno scuse.
Vediamo, dunque, di fare un po’ di luce, evitando che i dubbi della teoria, diventino un facile alibi per gli ignoranti o i troppo furbi.
Ricordiamo, in primo luogo a noi stessi, che i fallimenti del mercato riguardano, in primo le internalità o asimmetrie informative, che creano distorsioni all’interno dei contratti (problemi di selezione avversa ed azzardo morale). Dunque ne consegue la giustificazione teorica quanto meno di una regolamentazione dei prodotti e dei contratti del lavoro. In secondo luogo, le esternalità o asimmetrie informative che creano effetti su una o più parti esterne alla transazione e pertanto, giustificano le politiche per la ricerca e lo sviluppo (esternalità positive) e le politiche per l’ambiente (esternalità negative). In terzo luogo, il potere di mercato, che può essere abusivo, necessitandosi, pertanto, di una politica antitrust, oppure , essere il risultato di parametri strutturali che rendono il potere di mercato «naturale» (quindi, necessitandosi di una regolamentazione delle industrie di rete). In quarto luogo, ed infine, la produzione di beni pubblici (almeno di alcuni) è realizzata dallo Stato perché le caratteristiche di tali beni di non rivalità e non escludibilità non rendono la produzione profittevole per le imprese private.

I vantaggi comparati e la politica industriale

Inoltre, giustificano una politica industriale, i vantaggi comparati ed i cambiamenti strutturali. Essi, in definitiva, hanno la stessa motivazione: le condizioni di mercato cambiano costantemente, a causa dell’arrivo di nuovi concorrenti, di nuove tecnologie e dei cambiamenti nei gusti e nelle preferenze dei consumatori e perciò, le imprese si devono adeguare ai cambiamenti, con aggiustamenti di prodotto o migliorie. Ciò richiede mutamenti strutturali per le imprese ed implicano la modifica dei vantaggi comparati.
Tutte le scuole di pensiero, in definitiva, sono d’accordo sulla necessità di intervenire per risolvere i c.d. fallimenti del mercato. Divergono, tuttavia, le politiche che ciascuna prescrive, con differenze più profonde quanto agli interventi di fronte ai cambiamenti strutturali. In estrema sintesi, per i liberisti, l’ azione di governo dovrebbe limitarsi ad assicurare alle imprese un ambiente legislativo ed economico stabile, di modo che i nuovi vantaggi comparati possano emergere «naturalmente». Viceversa, la maggiore informazione rispetto al governo e la tendenza dei politici a preferire una politica di sussidi e di grandi progetti di grande visibilità presso l’elettorato ed i media, aggiunge ulteriori elementi distorsivi, restringendo spesso la concorrenza. Gli «interventisti», di converso, sostengono che anche se l’autorità pubblica dispone di meno informazione del settore privato, quest’ultimo non è sempre e comunque più efficace nelle decisioni. E veniamo al punto, come muoversi in tale confusione, e domandiamoci, ancora, ciò giustifica il mix e molti patchwork della politica industriale? In realtà esistono soluzioni istituzionali al problema del c.d.government capture, come un disegno istituzionale (tra le parti sociali, in altri termini) per ottimizzare l’implementazione della politica industriale, che garantisca la giusta «distanza» tra i burocrati che decidono delle politiche e le imprese. In particolare, sui punti che seguono c’è generale condivisione.
Con una adeguata politica industriale è possibile influenzare la struttura delle specializzazioni di un paese e, tra le risorse dei paesi, oggi, fondamentali sono la capacità tecnologica e d’innovazione ed il capitale umano. E’ evidente che spetta ai governi intervenire. L’azione, inoltre, deve essere mirata a specifici settori e concentrata su alcuni «poli» territoriali dove la cooperazione tra imprese, autorità governative e centri di ricerca è maggiormente intensa e, ciò in modo tale da attivare i moltiplicatori.
Un ulteriore punto di condivisione possibile è sul quadro istituzionale. C’è, infatti, consenso sul fatto che esso debba essere disegnato in modo da minimizzare i rischi di favorire l’interazione imprese, centri di ricerca, centri di formazione, ed articolazioni del potere dei governi ai vari livelli. Se è vero, infine, che lo sviluppo industriale si realizza «dal basso» va, tuttavia, considerato che al governo centrale spetta il ruolo imprescindibile di coordinatore e catalizzatore. Su questi interventi – che sono in larga misura quelli della teoria della nuova politica industriale, – ogni governo non può venire meno. Nessuno, adesso, ha più scuse e , l’opposizione faccia (come ha peraltro ben fatto ) il suo lavoro, ma soprattutto lo faccia comprendere agli italiani.

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