Banda paramilitare di 300 orfani romeni addestrati per rapinare gioiellerie
Imparavano a usare mazze e asce, a cambiarsi in fretta di abiti, a fuggire senza lasciare tracce, a dormire all’aperto e a resistere anche a climi rigidi. E chi sbagliava subiva persino punizioni corporali. Appartengono a una specie di gruppo paramilitare di oltre 300 uomini, quasi tutti orfani romeni, addestrati a mettere a segno rapine con tattiche militari in tutta Europa i quattro uomini, romeni, arrestati dalla polizia di Firenze con l’accusa di essere gli autori del colpo avvenuto nel dicembre del 2013 all’interno della gioielleria Fani di via Tornabuoni, a Firenze.
La stessa banda sarebbe responsabile, tra l’altro delle rapine con mazze e asce messe a segno in due gioiellerie nel centro di Milano, in via della Spiga, e di una tentata rapina in una gioielleria di via del Parione, sempre a Firenze.
I giovani, spesso provenienti dagli orfanotrofi romeni, venivano sottoposti a un vero e proprio addestramento militare di quattro mesi nei boschi della Romania. Imparavano come destreggiarsi nell’emergenza, come sfuggire alle forze dell’ordine, come sopravvivere in condizioni estreme, come maneggiare armi di fortuna, quali mazze e asce.
L’organizzazione, molti componenti della quale sono stati arrestati nei mesi scorsi in vari altri paesi europei, aveva un regolamento molto rigido applicato da una commissione: chi sbagliava, ad esempio, veniva duramente punito.
Per ogni colpo riuscito la “nuova famiglia”, come veniva chiamata in gergo, pagava a ogni malvivente un compenso di 5 mila euro. In caso di arresto, era persino prevista assistenza alla famiglia.
In manette, in seguito alle misure cautelari disposte dal gip Tommaso Picazio su richiesta del pm Christine Von Borries, sono finiti quattro romeni, due dei quali rintracciati in Belgio. Altri quattro componenti della banda sono attualmente ricercati dalle polizie inglese, francese, slovena e romena.
Il 23 dicembre del 2013 il commando fece irruzione nella gioielleria “Fani” di via Tornabuoni, sfondando la porta blindata con una mazza. Una volte dentro i malviventi, tutti a volto coperto, minacciarono la titolare e sfondarono le teche espositive a colpi di mazza e ascia, portando via 20 orologi Rolex per un valore di circa 150 mila euro.
Il colpo, durato meno di un minuto, fu messo a segno in orario di apertura, quando all’interno del negozio erano presenti anche clienti.
Ad agire furono in tutto otto uomini, come ricostruito grazie alle immagini delle telecamere della zona: uno rimasto a distanza, due nei pressi della gioielleria e cinque esecutori materiali.
Fondamentali per le indagini, condotte dagli agenti della sezione criminalità organizzata della squadra mobile di Firenze, gli elementi raccolti in occasione di altri colpi analoghi, come quelli di Milano.
Lo scambio di informazioni con la polizia romena ha permesso di accertare che subito dopo il colpo di Firenze alcuni dei componenti del commando hanno tentato una rapina in gioielleria in Belgio.
Gli investigatori fiorentini, risaliti alle targhe delle auto usate e alle schede telefoniche utilizzate, hanno ricostruito tutto il percorso dei criminali, dalla Romania fino all’Italia. Determinante per identificarli è stato anche il Dna trovato su alcuni abiti, abbandonati nei pressi della gioielleria di via Tornabuoni insieme a una mazza e a un’ascia.
Tutti i componenti del gruppo seguivano una sorta di accademia militare in Romania, in cui si entrava firmando un contratto.
Secondo quanto accertato dalla polizia romena nell’ambito di precedenti indagini, al momento dell’adesione ogni nuovo membro riceveva un regolamento, «frutto di un’esperienza ventennale» di attività criminale e in cui erano elencati i rischi, i compensi e anche il “codice d’onore” da seguire, che doveva essere firmato dai nuovi “adepti”.
«Tutti i criminali pensano di essere intelligenti» era uno degli avvertimenti per i nuovi arrivati, «ma soli pochi centrano l’obiettivo», per questo, «se vuoi diventare un criminale completo rispetta le nostre regole».
L'”ordine supremo” era di non usare telefoni o pc per comunicare, ma di «bisbigliare sempre nell’orecchio». Se si veniva presi, bisognava far credere ai giudici «di aver rimorso» e di essere pentiti, magari raccontando anche la propria storia di orfano, ma evitare sempre di collaborare alle indagini.