La non esistenza dell’arte moderna e la civiltà che scompare
In una vecchia intervista che meriterebbe di essere più conosciuta, Giorgio de Chirico sostenne la “non esistenza” dell’arte moderna e alla intervistatrice che gli chiedeva perché dicesse questo, rispose semplicemente: «Perché é la verità». Il problema si potrebbe forse anche generalizzare, ma di sicuro, tra le arti, riguarda quella che più immediatamente ci viene alla mente parlando d’arte e che conosciamo col nome tradizionale di pittura.
La crisi del concetto, per secoli spontaneamente evocato dalla parola pittura e cioè il ritratto, il paesaggio, insomma la riproduzione della realtà interpretata, ma sopratutto vista, riprodotta, dal pittore, è stata determinata dalla fotografia che le ha tolto la sua primaria funzione storica di trasmissione del ricordo. L’interpretazione della realtà divenne così, giocoforza, dominante, rispetto alla sua rappresentazione, per tutti coloro che, seguendo la loro vocazione, erano attratti da questa millenaria forma di espressione. Evoluzione in un certo modo obbligata, ma esposta al fortissimo rischio di contraddire totalmente la più bella, convincente e sintetica definizione di arte, dovuta a Benedetto Croce. Quella di arte come espressione compiuta di un sentimento. Laddove espressione compiuta, non vuole solo significare una necessaria tecnica espressiva, una logica interna, ma sopratutto la sua trasmissibilità e dunque la sua comprensibilità.
Inizialmente l’evoluzione non fu infeconda, accanto alla pittura tradizionale, che sopravviveva, si affermarono nuove correnti maggiormente legate all’interpretazione dell’artista o addirittura alla trasposizione su tela delle sue personali visioni, filosofie o incubi. Nessun dubbio che l’Impression fosse bellissima e straordinariamente evocativa, pur non avendo nulla di fotografico, così come la cartellonistica della bella belle Epoque, Modigliani, Tamara de Lempicka, il Picasso dei (soli) periodi precubisti o lo stesso De Chirico. Poi, quasi contemporaneamente a una lunga parentesi di arte volitiva, mobilitante e politicamente inquadrata (sopratutto in Russia, Italia e Germania) l’astrattismo ruppe gli argini, affrancandosi completamente da tutto. Dalla realtà anzitutto e infine anche da una qualunque logica coerente di linguaggio. Ancora il turbinio di colori di un Kandisky, riusciva a smuovere sensazioni, pur se già probabilmente molto diverse da persona a persona, ma dopo? Dopo, accanto ai – pochi – convinti davvero da un ego ipertrofico che la loro personalissima irrazionale visione dovesse e potesse essere capita (e se no peggio per gli altri) , c’è stato l’irrompere sulla scena, di tutti quelli per cui l’astrattismo era solo il mezzo per non pagare il dazio di dover apprendere davvero una tecnica pittorica e di farsi giudicare comparativamente. Per fingersi artisti, senza dover davvero studiare o peggio ancora lavorare . La stessa rivoluzione tecnologica, che ha cambiato la storia della pittura, ha prodotto poi l’esodo naturale di tanti istintivi talenti artistici verso altri settori , come il cinema, come il design e, forse, in un futuro non lontano la storia dell’arte di questo nostro secolo, accanto ai Calatrava, sarà marcata dalle Ferrari, dalla Vespa, da West side Story, da Luci della Città, da Amarcord o (perchè no ?) Biancaneve.
Eppure resiste, sempre fiorente, un mercato dell’ultima arte/non arte . Per capire occorre fare una digressione. Molti forse ricordano la battuta del tizio che sosteneva di possedere un cane da un miliardo e come prova dava l’offerta ricevuta di due gatti da cinquecento milioni. Così é un semplice nonsense, ma e se la catena tra domanda e offerta viene allungata a dismisura, con una miriade di passaggi (e di mostre) intermedi cosa succede ? Succede che alla fine uno si compra il cane pagandolo con denaro vero, perché convinto che quello sia il suo valore. Ci sono, un po’ in tutti campi, persone che hanno capito che il punto fondamentale della catena commerciale, non é tanto la produzione, quanto la vendita e che se si controlla una rete di vendita (e pubblicità) realmente efficiente, si é in grado di vendere qualsiasi cosa.
Molto probabilmente ci sono qua e là nel mondo pittori straordinari per tratto, sensibilità, tecnica, che sono e resteranno sconosciuti, perché estranei al circuito del marketing, così come grandi romanzieri o musicisti. Costoro sono quelli che, sbagliando, si concentrano sull’opera, invece di cominciare a frequentare i luoghi dello showbiz artistico, ancor prima di aver posto la prima tela su di un cavalletto. Quando cominciò , per effetto della ricordata rivoluzione tecnologica, un calo delle vocazioni artistiche più tradizionali, esisteva già una immensa rete mondiale di mercanti d’arte, galleristi, critici, che doveva comunque vendere qualcosa per funzionare e che non poteva basarsi esclusivamente sulle opere più antiche, spinte dalla rarefazione a prezzi sempre più inavvicinabili, per moltitudini abbastanza grandi da permetterne la sopravvivenza. E così si comiciò a propagandare e vendere di tutto, con unico criterio la notorietà, senza riguardo di come (e perché) fosse ottenuta . E così abbiam visto davvero di tutto : superfici imbrattate da corpi inchiostrati rotolanti, tele squarciate, ritratti infantili fosforescenti, monumenti impacchettati, intrichi di fili, mattonelle monocromatiche, escrementi artistici. Ma mostrati in maniera solenne, in sontuosi palazzi , in elegantissime gallerie, in patinate riviste . Perché tutto questo funzionasse, bisognava però renderlo tabù, fingere di prendersi terribilmente sul serio ( anche quando si abboccava ai falsi Modì di studenti spiritosi ) e, sopratutto, fare una enorme pressione psicologica su chiunque osasse criticare o anche solo esprimere delle perplessità. Bisognava affermare il concetto che per “capire” un quadro bisognasse intendersene ed avere intelligenza, cultura, spirito educato e di converso, che criticare un autore di grande notorietà significassa mancare di tutte queste qualità, essere dei disprezzabili e rozzi insensibili. In un epoca di borghesi non avrebbe funzionato, ma in un’epoca di semplici ricchi, insicuri e desiderosi di consenso sociale o al contrario consapevolmente corrivi, sì. E quello che è peggio è che anche veri pittori cedettero alla lusinga della facile fama delle opere vuote, tavolta almeno apertamente irridendo alla credulità dei plauditores ( Dalì ), talatra purtroppo perfino autoilludendosi.
E oggi Il coro, ben orchestrato, si attiva all’unisono con toni scandalizzati e grande clamore ogni volta che qualcuno fa notare che il re é nudo. E non é composto solo dalle decine di migliaia di “addetti ai lavori”, ma anche dalle centinaia di migliaia di ignari aquirenti costretti a difendere l’investimento. Il fatto è che nessuna speculazione rende tanto quanto il vendere il nulla, anche il prodotto industriale meno caro avrà comunque un costo, persino il derivato finanziario più vuoto costerà qualcosa. Ed è al riparo da rischi, perché nessuno può sindacare la decisione di un privato di spendere i suoi soldi per acquistare una crosta , anziché un bel quadro. Perché i bei quadri ci sono ancora, eccome, senza pensare per forza a musei e grandi borghesi superstiti, con le fantastiche collezioni del passato, grandi opere, anche caleidoscopicamente astratte (si pensi ad Escher), continuano a nascere e per passione vera di artisti e perché un bel dipinto, per la sua unicità, avrà sempre un fascino superiore ad una fotografia, anche solo come ricordo . Ma troppe sono le croste milionarie e troppi i venditori di sensazionalismo d’accatto, troppi, davvero troppi. E il re continua così a pavoneggiarsi nudo. Pure in qualcosa la non pittura moderna, paradossalmente, recupera parte della sua funzione antica di riproduzione della realtà, perché in una società che, un pò in tutto il mondo, si sta svuotando di significato etico, di tensione verso il razionale, il nobile, attraversata da fanatismi religiosi, ventate irrazionali, nirvana artificiali e costose volgarità, é in fondo lo specchio di dove stiamo finendo . Il Nulla a rappresentare il Niente.