Brexit, Pil a picco per Gran Bretagna e Europa. Ecco perché

4 Lug 2016 12:34 - di Enea Franza

Si cominciano ad evidenziare le conseguenze economiche della vittoria del fronte del leave, nel voto sulla Brexit, effetti che, per il momento, sono evidenti sul mercato dei capitali,  come plasticamente evidenzia la quotazione della sterlina, nei confronti dell’Euro, ai livelli del 1985. Stupisce però non poco il crollo di venerdì 24 giugno dei mercati Europei ed, in particolare, di “Piazza Affari”, che, in quel sol giorno, ha registrato una caduta del 12,5%. Di certo hanno pesato le indecisioni in sede europea sui possibili approcci da tenere nei confronti del Regno Unito, a cui i Trattati danno due anni per completare il processo d’uscita e, le indecisioni sulle iniziative da prendere per un’eventuale accelerazione del processo di integrazione europea, soprattutto per una maggiore integrazione finanziaria e bancaria.

Ma può bastare come spiegazione la mera “preoccupazione degli investitori” sul venir meno della irreversibilità dell’Euro per decifrare esaustivamente quello che sta succedendo sui mercati dei capitali europei ed, in particolare, della spaventosa caduta dell’indice di Borsa Italiana?

Ma, per cercare di capirci qualche cosa in più, dobbiamo fare qualche considerazione iniziale. L’uscita del Regno Unito dall’Europa determina per l’ UE una perdita secca del 17% del Pil e del 12% della sua popolazione. Un fatto semplicemente contabile, che però ha un peso per l’Europa  e nei rapporti con gli altri grandi concorrenti mondiali, USA e Cina in primo luogo. In discussione, con l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione, ci sono la stabilità del commercio, del mercato, degli investimenti stranieri e dei mercati finanziari e cioè di libero mercato di merci, servizi, persone.  Lo scopo di una area di libero scambio è, come noto, di ridurre (annullare, nel caso della UE) le barriere allo scambio tanto da far crescere il commercio come risultato della specializzazione economica, della divisione del lavoro, rendendo possibile la pratica del vantaggio comparato.

La teoria del vantaggio comparato sostiene che in un mercato senza restrizioni (ed in equilibrio … ) ogni fonte di produzione tenderà a specializzarsi nell’attività in cui ha un vantaggio comparato rispetto alle altre. Il risultato netto sarà un incremento del reddito, in quanto, comunque, il guadagno dei vincenti supera le perdite dei perdenti.

Dunque, ogni allontanamento da tale ideale posizione determina situazioni di second best, ovvero, in altri termini, è in grado di condizionare le aspettative degli investitori nel senso di caricare perdite su tutti i partecipanti all’area di libero scambio.  Così il fatto che un paese dell’importanza enorme quale è la Gran Bretagna si allontani da un’area di libero scambio, di fatto condiziona negativamente le aspettative.  E, tra i paesi  più deboli della Unione Europea c’è l’Italia,  con un debito pubblico che continua a crescere ed una produttività che è, da anni, a livelli molto più bassi della media europea. Ne consegue (facile a prevedersi) che ogni scossone esterno ha un impatto violento su Piazza Affari. Adesso c’è la Brexit, e vengono bruciati in una sola seduta 47 miliardi di euro (con un  settore bancario che perde il 22% con vendite anche sugli istituti più solidi) e nel prossimo futuro, probabilmente, l’instabilità politica.

Ma vediamo ora di rispondere ad un’altra serie di questioni. Quali le conseguenze per il Regno Unito?  Nei tre mesi precedenti al referendum, è stato evidente come gli investitori internazionali abbiano aumentato le loro partecipazioni in azioni del mercato del Regno Unito, nonostante le incertezze create dalla votazione, con l’unica eccezione del mercato valutario, dove gli investitori si sono coperti dal rischio di cambio, con lo scopo di ammortizzare il prevedibile deprezzamento della sterlina conseguente al voto. Adesso l’incognita è se gli investitori internazionali cercheranno o meno di ridurre anche le loro posizioni nel mercato azionario e tale comportamento potrebbe essere condizionato dall’eventuale permanenza di incertezza.

La principale fonte di crisi, in merito, è che il Regno Unito non avrà più accesso al mercato unico europeo alle stesse condizioni di oggi, e la rinegoziazione di tali condizioni richiederà tempo e creerà preoccupazione. Inoltre, le condizioni di scambio per i britannici con il resto del mondo sono ad oggi condizionate dagli accordi commerciali siglati dall’Unione Europea. Ora, con la Brexit, il Regno Unito sarà escluso da tali accordi e, per quelli passati, si possono aprire aree di ulteriore incertezza.

La scienza economica ci dà gli strumenti per fare una rapida analisi. C’è da scommettere che nel breve periodo la sterlina sarà la prima vittima sacrificale sui mercati, a causa del probabile calo della fiducia delle imprese britanniche e di un maggior deficit delle partite correnti del paese. La turbolenza futura preventivabile potrebbe, tuttavia, dare luogo ad opportunità di guadagno significative per gli speculatori e per quegli investitori che seguono un approccio fondamentale, di tipo bottom-up, secondo gli analisti americani. Poi, sinteticamente, c’è da prevedere, un inflazione in salita, perché le importazioni saranno più care, ed un aumento dei tassi di interesse, proprio per contrastare l’inflazione.  Infine, si può ben condire il tutto con una facile previsione di una fuga dei capitali delle aziende, che porterà nell’immediato ad una perdita di fiducia nell’economia britannica, a meno investimenti e meno assunzioni di manodopera, ovvero, in breve ad una riduzione del Pil. Questo nel brevissimo periodo.

Tuttavia, un’analisi a medio lungo termine deve tenere in debito conto gli effetti della svalutazione della sterlina ed un aumento della produttività del settore manifatturiero tenuto conto che l’uscita dall’Unione dà alle imprese britanniche un potenziale di crescita in termini di minori costi di adeguamento alle normative europee che pesano e non poco sul sistema paese.

Naturalmente, le previsioni a lungo periodo non sono semplici e, come diceva Keynes, “… nel medio-lungo periodo siamo tutti morti” segno certamente di una sfiducia nei programmi a lunga scadenza ma anche, in fondo, il limite vero delle analisi di quell’economista.

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