Schiaffi e calci ai disabili, i giudici: “Era la norma”: infermiera arrestata

14 Giu 2016 9:45 - di Gabriele Alberti

Le percosse ai malati mentali – adulti e minorenni, tra gli otto e i venti anni – ospitati al centro di riabilitazione «Villaggio Eugenio Litta di Grottaferrata (Roma), sono state così protratte nel tempo, “da assurgere a ‘sistema’, condiviso da altro personale della struttura, nella gestione del rapporto con i pazienti e che si avvaleva del clima omertoso instaurato nei confronti di soggetti incapaci di difesa». Lo scrive la Cassazione confermando gli arresti domiciliari per via della sua pericolosità sociale nei confronti di una operatrice sanitaria, che lavorava in questa struttura e che è tra le dieci persone indagate in questa vicenda ai danni delle sedici vittime ospitate nel villaggio convenzionato con la Regione Lazio e che si trova ai castelli romani, alle porte di Roma. Dalle riprese fatte dai Nas, ricorda il verdetto della Suprema Corte, risulta che la donna l’11 ottobre 2015 dava uno schiaffo a una paziente che la seguiva, poco dopo ne dava un altro a una paziente che aveva fatto cadere la felpa.

 Schiaffi e pugni ai disabili erano “un sistema”

Pochi giorni dopo, l’indagata viene ripresa mentre colpiva al volto una paziente inveendole contro e strattonandola perché mentre beveva le era caduta l’acqua a terra. I supremi giudici hanno convalidato la misura cautelare emessa lo scorso primo febbraio dal gip di Velletri e ‘controfirmata’ dal Tribunale di Roma con ordinanza dello scorso 25 febbraio. Il caso venne a galla perché i parenti delle vittime si erano accorti che qualcosa non andava e avevano avvisato i dirigenti della struttura determinando l’intervento del Nas e della Procura. “E’ evidente – sottolinea la sentenza 24474 della sesta sezione penale, presidente Franco Ippolito – che la natura abituale della condotta accertata, commessa in un contesto caratterizzato dalla debolezza delle persone offese e da posizione di preminenza del personale addetto alla struttura, e le comuni e condivise modalità della sua esecuzione costituiscono indici di pericolo concreto e attuale di reiterazione di condotte dello stesso genere”. Così il ricorso dell’indagata, che ha chiesto la privacy, è stato rigettato.

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