L’analisi – La salute di Berlusconi e il futuro di Forza Italia

14 Giu 2016 8:36 - di Carmelo Briguglio

Dire di Forza Italia partito personale o aziendale, persino padronale, non è una forzatura polemica o un ostile luogo comune: questa è l’essenza del partito di Berlusconi (al quale, impegnato in una prova difficile, facciamo i migliori auguri). I ripetuti tentativi di “vedere” FI (ieri il Pdl) in altro modo e di allontanarla da questa ontologica natura di formazione legata, in modo così originario e indissolubile, alla persona e al corpo del suo creatore – un tema questo del “corpo del capo” tanto amato dai media – sono finiti e non potevano che finire come sono finiti, “per la contradizion che nol consente”, a dirla con padre Dante. Le scissioni, quelle politiche di Fini, Alfano e Fitto – quella di Verdini no, è altra cosa – sono espressione di questa ripetuta e incapacitante tentazione di cambiare il genoma del partito berlusconiano e, in fondo, la stessa natura del berlusconismo; per non averne compreso e, infine, non averne accettato, la “psichè”.
Per questo, un’uscita di scena dell’ex Cavaliere, nel senso di un addio alla politica – se pure determinato da un quid come lo stato di salute ovvero presto o tardi anche l’anagrafe – non è pensabile. È più facile credere che, dopo il serio intervento operatorio che l’ex premier sta affrontando, “è giunto il momento in cui il partito deve iniziare a camminare con le proprie gambe”. È l’opinione autorevole di Fedele Confalonieri, la personalità più eminente delle holding dell’ex Cavaliere di cui il partito – nella visione proprietaria di quest’ultimo- in un certo senso è uno dei “pezzi”: allo stesso modo di Mediaset, della Mondadori o del Milan. Il che equivale a dire che nessuno deve aspettarsi – a iniziare dalla classe dirigente di FI, che in questi giorni non sta dando di sè l’immagine migliore – una plateale uscita di scena, con una cesura netta di un “prima” e un “dopo”; ma piuttosto, un percorso non brevissimo nel quale “si vedrà se tra tanti colonnelli ci sarà qualcuno capace di guadagnarsi i gradi di generale”, come ammonisce il presidente di Mediaset.

Il partito-azienda ci sarà anche domani

Un intermezzo nel quale, al massimo, il capo di Forza Italia attenuerà il suo impegno, delegherà qualcosa, ma non lascerà del tutto le redini della sua “azienda politica” a una persona o a un direttorio. Via via, col tempo, non breve, selezionerà magari un suo fiduciario, da nominare più che da eleggere, men che meno in un congresso: procedura questa da normale partito politico – il quale sceglie un leader e gli conferisce poteri e sovranità – che nel caso del partito di Berlusconi non è concepibile appunto perché il partito “è”, nel bene e nel male, di Berlusconi – e degli elettori che sono anche “suoi” – e di nessun altro.
E, anche a pensare al futuro, in qualsiasi condizione fisica ed età si trovasse, Berlusconi resterebbe comunque il “symbolum” – ciò che unisce – del suo partito e insieme il creatore di un movimento politico e, allo stesso tempo, transpolitico che ha caratterizzato un lungo periodo della storia recente italiana. C’è chi azzarda a guardare più lontano, fino a chiedersi cosa sarà negli anni a venire di Forza Italia. Sarebbe errato accelerare conclusioni, men che meno giungere a quella sbrigativa che con B. finirebbe “tutto”: un “rompete” le righe, tutti a casa. E ciò per una serie di ragioni, politiche e non, ma tutte molto intrecciate all’uomo, alla sua impronta impressa alla vita nazionale; e connesse ai suoi interessi politici, che hanno un canale di comunicazione con quelli privati o, se si vuole, anche al legame non banale col Paese di cui Mediaset – lo dichiarò D’Alema da premier – “è patrimonio”.
È agevole pensare che, anche in un futuro lontano, finirà per applicarsi uno schema aziendale, di subentro nella direzione della “Cosa” politica, come per il resto delle società di mr B., in cui la famiglia e gli uomini più vicini diranno la propria, senza magari esporre direttamente uno di loro, ma affidandosi a qualcuno di cui si fidano che li rappresenti. Se non fosse per l’età, Gianni Letta sarebbe domani la figura adatta a fare politica quel tanto che basta per navigare nel mare insidioso della politica e delle istituzioni mantenendo un logo e una truppa parlamentare.
Qualcosa di più, sul piano quantitativo, di ciò che il Partito repubblicano di Ugo La Malfa rappresentò nella Prima Repubblica per Confindustria. In questa prospettiva, il partito-azienda è stato e, pur ridimensionato, potrà essere ancora utile per la “protezione” del Gruppo, purché senza pretese e mire troppo ambiziose o di contrasto con i governi che verranno. Una linea di tendenza di cui il Nazareno, l’opposizione blanda, alcune avanguardie (come il “si” al referendum del Foglio), il contatto frequente di Confalonieri con Renzi, sono una chiara anticipazione. Ma è troppo presto per azzardare scenari.

Berlusconismo come gaullismo, tatcherismo e reaganismo ?

Si può però dire che, se quello berlusconiano è un fenomeno e non soltanto una forma- partito, esso potrebbe traguardare la fisicitá del suo fondatore. E la sua stessa esistenza (quando sarà). Nel dopoguerra, di fondare – oltre il bene e il male – un “ismo” legato a un nome, è stato capace solo Berlusconi: a destra non c’è stato né l'”almirantismo” e neppure il “finismo”; così a sinistra non si può parlare né di “berlinguerismo” e ancor meno di “renzismo”; non c’è neppure il “pannellismo” o il “grillismo”: non è il leader carismatico che crea di per sé il fenomeno. Occorre che una personalità forte abbia avuto o abbia la capacità di permeare una storia, un’epoca, un paese e il “carattere nazionale” con una sua “ideologia”, una sua “kultur”, anche con un’estetica, uno stile, una “vogue”; e un modo di influenzare fortemente la gente col suo “mito” personale, con la sua propaganda, con la sua fabbrica del consenso. Ma non per qualche anno, per decenni. Per queste ragioni, il berlusconismo in Italia, presto o tardi, potrebbe diventare in scala molto minore – come è “minore” l’Italia – ciò che il gaullismo è stato ed è in Francia, il tatcherismo in Inghilterra, il reaganismo negli Usa, per limitarci al versante “right” dell’Occidente. Anche se ci si porrà la domanda: se Charles De Gaulle ha lasciato un’idea della “Republique” incarnata in istituzioni che gli sopravvivono e Margaret Thatcher e Ronald Reagan una visione del mercato e dell’economia corredata di ricette e prassi di governo, cosa è stato ed è il “berlusconismo” ? Cosa lascerà all’Italia ? Certo, non è vero che “di quel ventennio già adesso non rimane niente se non qualche pozzo avvelenato, macerie, un trono già vuoto che nessuno potrà mai occupare” (Francesco Merlo su Repubblica, 10 giugno). E non è neppure vero che lascia soltanto più di un dubbio sulle sue ricchezze, due cofondatori – Dell’Utri e Previti – in carcere per mafia e corruzione giudiziaria, l'”eroe-stalliere” Vittorio Mangano, i fotogrammi (non del tutto) profetici del Caimano di Moretti, il conflitto d’interessi, l'”ad personam” nella legislazione, l’irruzione del bunga bunga in politica, i processi, la condanna e i servizi sociali, una cattiva reputazione dell’Italia all’estero. Questa è la interpretazione del berlusconismo come “parentesi” e “malattia morale”, utilizzata da Croce già per il fascismo e raddrizzata da quella gobettiana”di autobiografia della Nazione”: categorie che saranno utili quando si vorrà “concludere” con una lettura “raffreddata” e storicizzata del Ventennio di B.; quando il manicheismo ci lascerà liberi tutti di andare anche alle poste positive del consuntivo, si farà strada nel giudizio qualcosa che ha a che fare con la modernizzazione bipolare e la creazione del centrodestra, l’innovazione del linguaggio, della comunicazione e della rilevazione elettorale (tv e sondaggi), le intuizioni di politica estera (Russia, Libia, Israele), il peso economico ma anche politico della tassazione, la scoperta dei limiti di Bruxelles e dell”europeismo di maniera, le relazioni ambivalenti col mondo cattolico e con la Chiesa (Ruini). E anche una linea riformista certamente più ponderata e meno personalistica di quella di Renzi: basti mettere a confronto la “legge Boschi” e la riforma costituzionale del centrodestra varata nel 2001 – quest’ultima più equilibrata e priva di smanie napoleoniche – crocifissa a torto dal centro-sinistra che riuscì a farla bocciare nel successivo referendum confermativo, soprattutto perché l’allora presidente del Consiglio e il suo schieramento non si spesero.

Forza Italia come il suo padre-padrone: è viva e vegeta

Ci vorrà ancora tempo per tirare le somme. Anche perché l’ex Cavaliere è vivo e vegeto e tutti gli auguriamo lunga vita.
Nessuno, quindi, creda a una plateale uscita di scena, per godersi il suo privato: l’ex premier starà ancora in mezzo alla politica. E probabilmente la narrazione di e su B., dopo il capitolo del “prigioniero” ai servizi sociali, si arricchirà di quella del quasi “immortale” che torna dall’ospedale con “cuore ringiovanito”. E, quindi, lo si potrà convincere, forse, di nominare uno o più viceré, o una corte più ristretta, non di abdicare. Il sovrano resterà lui e regnerà fino alla fine. Come è in “re ipsa” della “sua” Forza Italia. La quale – i sorprendenti risultati delle Amministrative a Milano lo dimostrano – come il suo padre-padrone, è tutt’altro che spacciata: ha ancora radicamento territoriale, consensi elettorali, energie e personalità (Gelmini ne è un esempio) per svolgere un ruolo attivo nella politica italiana e nella ricomposizione del centrodestra. Dopo gli ennesimi errori – come la voluta sconfitta anti-Meloni di Roma – Mr. B quindi tornerà. Con altri errori. Che ormai sopravanzano i colpi di genio di cui il centrodestra ha vissuto per tanti anni. Perché adesso è un altro tempo per tutti. A maggior ragione per l’ex Cavaliere. Ma, ancora, anche sulla “rive droit”, chi vuole un “Cavaliere inesistente” dovrà aspettare.

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