Caso Nogarin, il M5S peggio del Pd: «Se l’indagato è mio, lo gestisco io»

10 Mag 2016 11:40 - di Giacomo Fabi

Clamoroso a Livorno: i Cinquestelle decidono di fare quadrato intorno a Filippo Nogarin, il sindaco della città finito nel registri degli indagati con l’accusa di concorso in bancarotta fraudolenta. Più che una notizia, è un vero scoop se solo si pensa che i grillini – come del resto il Pd prima di sperimentare sulla propria pelle gli effetti delle inchieste giudiziarie – hanno fatto dell’automatismo indagini-dimissioni una sorta di religione civile, una bandiera della loro irriducibile diversità e alterità di fronte a tutto ciò che puzza di casta, di palazzo, di nomenclatura.

Nogarin è ancora sindaco nonostante risulti indagato

Fino a ieri, almeno. Oggi, invece, il leader facente funzioni, Luigi Di Maio, ha annunciato che il suo movimento subordinerà l’ordine di sfratto a Nogarin all’occhiuta disamina della decisione della procura di Livorno avvertendo che qualora <<non si tratti di un atto dovuto>> provvederà lo stesso sindaco a togliere il disturbo. Che cosa questo significhi non è dato sapere, dal momento che l’iscrizione nel registro degli indagati è per definizione un atto dovuto. Comunque sia, premesso che non si capisce perché quel che vale per Nogarin non debba valere per gli altri politici o amministratori finiti sotto inchiesta, l’inatteso “indietro tutta” di Di Maio ricorda un po’ la furbizia di quegli antichi monaci che prima di gozzovigliare con l’abbacchio nel venerdì di magro, si autoassolvevano con le parole “ego te baptizo piscem” accompagnate dal segno della croce. Grazie alla formula magica, quel che era carne e quel che era pesce lo decidevano i monaci, che riuscivano così a mettere d’accordo le esigenze dello spirito con le necessità della carne. A beneficiarne, ovviamente, erano solo i frati e non anche per gli estranei al convento, tenuti, invece, – loro sì -, alla rigorosa osservanza del precetto religioso.

Ora Di Maio fa il garantista: «Dobbiamo prima leggere le carte»

Ora Di Maio ha indossato il saio e si accinge a fare la stessa cosa stabilendo lui quando un avviso di garanzia debba o non debba condurre alle dimissioni dell’indagato. Altrove, la sua sortita farebbe sganasciare dalle risate. Ma non in quest’Italia impiccata da vent’anni all’irrisolta querelle tra garantisti e giustizialisti dove, anzi, potrebbe persino fondare la regola in base alla quale “se l’indagato è mio me lo gestisco io”. Risultato: d’ora in poi lo scontro sui provvedimenti dei magistrati non verterà più sulla loro tempistica o sul colore politico dell’indagato ma sulla interpretazione “giuridica” che in tutta autonomia ne daranno i partiti colpiti. Un vero salto di qualità nella guerra tra toghe e politici che nessuno, ma proprio nessuno, avrebbe mai pensato di poter ascrivere agli implacabili giustizieri a Cinquestelle. Una ragione in più per convincerci che in fondo la situazione, per quanto grave, non per niente è seria.

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