Petrolio italiano: una lunga, sporca storia d’affari, omicidi, subalternità

8 Apr 2016 14:02 - di Massimo Weilbacher

In Italia la commistione tra politica e petrolio è sempre stata nefasta e ha avuto spesso effetti dirompenti. Non a caso Pierpaolo Pasolini ha intitolato “Petrolio” il suo romanzo più emblematico, incentrato sulla degenerazione etica e morale della società italiana. C’era il petrolio, ad esempio, dietro al delitto Matteotti. Come ha accertato la storiografia più recente, dopo il famoso discorso del 30 maggio 1924 Giacomo Matteotti aveva intenzione di rivelare in Parlamento un clamoroso episodio di malaffare legato alle concessioni petrolifere ottenute dalla società americana Sinclair Oil corrompendo molti importanti personaggi legati alla politica, secondo alcuni fino all’entourage di Mussolini, e alle istituzioni del Regno, forse, addirittura, Casa Savoia. La Sinclair Oil (che agiva per conto della potente Standard Oil dei Rockefeller) distribuendo corpose mazzette aveva ottenuto il monopolio della commercializzazione in Italia dei prodotti petroliferi, la concessione esclusiva per lo sfruttamento di tutti i giacimenti presenti sul territorio nazionale ed una serie di incredibili agevolazioni fiscali.

Enrico Mattei, mistero mai chiarito

La cosa non era andata giù agli inglesi della Anglo-Iranian Oil Company (l’odierna BP), a loro volta ingolositi dal promettente mercato italiano, che avevano messo insieme un dossier esplosivo giunto poi a Matteotti, probabilmente attraverso il Labour Party allora al potere in Inghilterra. Il rapimento, forse pianificato come semplice atto di intimidazione poi degenerato nell’omicidio, avrebbe avuto lo scopo di impedire al deputato socialista di rivelare il contenuto del dossier, che Matteotti pare avesse con sè il giorno del delitto e che sparì. La convenzione verrà poi annullata nel novembre del 1924, ma la vicenda, come si sa, ebbe effetti sconvolgenti per l’Italia sia sul piano storico che politico. Odora di petrolio e politica, nel bene e nel male, anche la storia di Enrico Mattei al quale l’Italia deve l’approvvigionamento energetico e la prima società industriale del paese, ma che tra partiti-taxi, giornali metaniferi, favori politici e mazzette di tutti i colori fu uno dei più spregiudicati protagonisti del sistema politico-affaristico italiano. Ovviamente è lì, tra petrolio, mafia, affari e guerre di potere che si deve cercare la causa della sua tragica morte, uno dei tanti misteri mai chiariti del dopoguerra italiano.

Petrolio e politica, un lungo filo rosso

L’odore di petrolio diventa poi puzza insopportabile quando si tratta degli scandali che periodicamente investono petrolio e petrolieri, con un copione che si ripete quasi sempre uguale e con gli stessi protagonisti: commistioni indecenti tra classe politica e affari, connivenze di alti funzionari e autorità preposte al controllo, faccendieri, portaborse e personaggi equivoci che rimestano nel fango. Memorabile lo scandalo dei petroli degli anni ’70, un gigantesco giro di contrabbando ed evasione fiscale, valutato in 2.000 miliardi dell’epoca, che si stima abbia coinvolto ben un quinto dei consumi petroliferi del paese, completamente sottratti al fisco. Al centro dei fatti un gruppo di petrolieri truffatori e senza scrupoli e i vertici della Guardia di Finanza: il Comandante Generale Raffaele Giudice e il Capo di Stato Maggiore Donato Lo Prete (entrambi iscritti alla loggia P2 di Licio Gelli) assecondati da una pletora di ufficiali conniventi. Quello che potrebbe sembrare inverosimile anche nella trama di un B Movie di terz’ordine, nell’Italia della prima Repubblica era invece realtà: i capi delle guardie erano anche i capi dei ladri. Naturalmente i generali felloni non erano arrivati lì per caso: venivano nominati appositamente, scavalcando ufficiali leali e meritevoli, da politici anche di altissimo livello (DC, PSI e PSDI) collusi e conniventi che poi riscuotevano abbondantemente la loro parte del bottino. E’ in questa “gloriosa” tradizione che si inserisce il caso Tempa Rossa, la nuova saga dell’Italia petrolifera balzata in questi ultimi giorni all’attenzione delle cronache. La vicenda si presenta come un tipico episodio di vecchio malcostume italico e, nello stesso tempo, come un caso emblematico della superficialità e del dilettantismo che caratterizzano l’azione politica di Renzi e dei suoi amichetti accampati a Palazzo Chigi. Per quanto grave, non è l’aspetto giudiziario della vicenda a colpire l’attenzione. Da questo punto di vista la giustizia sta facendo il suo corso, come in altri casi simili: sono appena arrivate nove condanne, da 2 a 7 anni, a carico di dirigenti della Total (che gestisce il sito petrolifero), amministratori locali ed imprenditori per corruzione e turbativa d’asta. Fin qui niente di particolare; sono fatti del 2008 ed il procedimento pare inevitabilmente destinato alla prescrizione; come in tanti altri casi alla fine la galera non ci sarà per nessuno. Altri procedimenti sono stati aperti per gli ultimi fatti, dagli episodi di corruzione ai disastri ambientali, e anche qui si vedrà quale sarà il corso della giustizia.

L’inconsistenza della politica di Renzi

Gli aspetti più interessanti, però, riguardano il lato politico e quello dell’interesse pubblico: è da qui che emerge in modo tragicamente evidente l’inconsistenza e la nullità dell’azione politica renziana. Sul piano politico troviamo un presidente del consiglio che, strombazzando la propria novità e la discontinuità col passato e con i deprecati metodi della”vecchia politica” al momento della formazione del governo, si ritrova in realtà ostaggio di lobby industriali e gruppi di interesse che gli impongono un loro terminale, Federica Guidi, in un ministero chiave come il MISE. Imprenditore dell’energia, ben introdotta nelle cordate di Confindustria, del tutto inadeguata al ruolo (non certo l’unica nel Governo Renzi), la Guidi viene piazzata proprio al ministero dal quale dovrebbe dipendere la politica industriale del paese e che distribuisce a pioggia al mondo industriale soldi e utili provvedimenti di legge. Inevitabile, prima o poi, il conflitto di interessi, arrivato puntualmente e nel modo peggiore con il classico provvedimento normativo scritto sotto dettatura, planato in un decreto legge del governo blindato col voto di fiducia e approvato senza tante storie. Con l’ulteriore aggravante che la norma incriminata permette al compagno del ministro, pare all’insaputa del resto del governo, di aggiudicarsi lucrosi appalti in segno di gratitudine. Le inevitabili dimissioni non possono certo cancellare gli effetti di questo bel pasticcio all’italiana.

Non rottamare, ma riciclare

Più che una politica nuova e moderna sembra una vecchia storia di democristiani o socialisti della prima repubblica. Evidentemente il boy scout fiorentino invece di rottamare in questo caso si è messo a riciclare. Se poi guardiamo la situazione dal punto di vista dell’interesse pubblico la questione è ancora più assurda. Il giacimento Tempa Rossa, il più grande dell’Europa continentale, è stato affidato in concessione ai francesi di Total in società con gli Inglesi di Shell (Francesi e Inglesi, lo stesso connubio che ci sta facendo le scarpe sul petrolio libico). I fiancheggiatori delle lobby petrolifere ripetono dappertutto e fino alla noia che un paese come il nostro, dipendente dall’energia importata dall’estero, è obbligato a sfruttare le risorse del proprio suolo che garantirebbero, pare, il 10% del fabbisogno nazionale. Giustissimo, peccato però che le cose non stiano affatto così. Il petrolio della Basilicata, a differenza del gas della Valle Padana estratto dall’ENI di Mattei che contribuì ad alimentare il boom economico degli anni sessanta, è destinato ad essere esportato. Il petrolio che consumiamo noi arriva dall’Azerbaijan o dal Kazakhstan, attualmente i nostri principali fornitori, non dalla Basilicata. Il famoso decreto legge difeso a spada tratta da Renzi in nome di un decisionismo sempre più ottuso e superficiale serve infatti a permettere la costruzione di un oleodotto (a beneficio della Total) che porterà il petrolio a Taranto, dove verrà stoccato (in strutture autorizzate dal decreto medesimo) e da dove le petroliere della Total lo porteranno all’estero ai consumatori finali (previo ampliamento del porto, sempre a beneficio della compagnia francese e sempre autorizzato dal solito decreto). In Italia, oltre ai problemi, rimarranno solo le royalties più basse d’Europa, pari solo al 10% per il gas e al 7% per il petrolio con una franchigia annua di 20 mila tonnellate per il petrolio estratto in terraferma, 50 mila tonnellate estratte in mare, 25 milioni di metri cubi di gas estratti a terra e 80 milioni di metri cubi in mare.

La Basilicata usata come una colonia

Così nel 2015 su un totale di 26 concessioni attive solo 5 per il gas e 4 per il petrolio hanno pagato royalties. Tutte le altre sono rimaste sotto i limiti della franchigia e quindi non hanno versato niente a Stato, Regioni e Comuni. Un trattamento molto favorevole a cui si aggiungono la deducibilità fiscale delle royalties e incentivi e finanziamenti vari erogati da MISE, CDP ed altri enti pubblici. Un regime fiscale estremamente conveniente per le società petrolifere, soprattutto se paragonato alle ben diverse condizioni della Danimarca, dove non ci sono royalties ma esiste un prelievo fiscale specifico per le attività di esplorazione e produzione che arriva al 77% o della Gran Bretagna, dove l’imposizione può arrivare fino all’82%, o della Norvegia con aliquote al 78% a cui si aggiungono i canoni di concessione. La Basilicata viene utilizzata dai petrolieri stranieri come una colonia del terzo mondo:mle sue risorse naturali vengono sfruttate senza troppi scrupoli (come dimostrano le inchieste in corso) e svendute in cambio di royalties inadeguate, mentre i profitti, con il grazioso contributo dello stato italiano, andranno all’estero insieme al petrolio. Qui resteranno solo pesantissimi problemi ambientali, inquinamento, problemi di salute per i cittadini coinvolti e intere zone sconvolte. In fondo la logica è quella di sempre: costi pubblici e profitti privati, paga sempre Pantalone. Un dettaglio che nella frenesia di decidere e sbloccare a qualunque costo, non importa cosa e perché, deve essere sfuggito. O forse no.

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