«Così l’Egitto ci ha incastrato per la morte di Regeni, falsificate le prove»
La morte di Giulio Regeni «ha sconvolto il mondo. Ma qui ci sono cinque persone uccise e nessuno ne parla». «Nostro padre aveva avuto dei guai con la legge, per essersi spacciato per un poliziotto di basso rango e mio marito era con lui, ma avevano abbandonato ogni attività criminale dopo essere usciti di prigione sei anni fa. Non avrebbero mai portato mio fratello a fare qualcosa di illegale. Lui aveva un buon lavoro, vendeva macchine». E’ il racconto al Corriere della Sera di Rasha e di suo fratello Sameh, i cui familiari sono stati accusati della morte del ricercatore italiano, in una delle versioni trapelate sulla stampa egiziana. I corpi del padre, del fratello e del marito di Rasha sono stati trovati crivellati di colpi. I documenti di Giulio in una borsa a casa di una loro zia.
«Gente come noi non conta niente. Ma se il governo crede che dimenticheremo si sbaglia, perché siamo anche noi esseri umani», afferma Rasha, a sua volta ricercata – come dice al quotidiano – per essersi opposta alle autorità.
«Quella borsa era di mio fratello Saad. Il portafogli con la scritta “Love” è di mia madre. I soldi erano il frutto della vendita di un’auto a un tizio di Dubai. La polizia ha messo i documenti tra le nostre cose durante la perquisizione – dice Sameh – Non può essere stato nessun altro. E la prova è che tra gli oggetti c’è il portafogli marrone di mio fratello: lo aveva con sé quando lo hanno ucciso».
I due giovani negano che il padre abbia rubato i documenti di Regeni: «Non è mai successo. E poi Giulio non sarebbe andato a denunciarlo?».