La nobile impresa, un libro spiega come unire profitto e dignità del lavoro

28 Feb 2016 11:03 - di Riccardo Arbusti

Che cosa lega il Feudo di San Leucio di Ferdinando IV, il programma riformista mazziniano, le encicliche Rerum Novarum e Quadragesimo anno, ai primi programmi dei Fasci, agli esperimenti alla Dalmine e alla Franchi Gregorini? Quale filo unisce questi fenomeni e la Repubblica di Weimar, il sindacato unico e il sindacalismo rivoluzionario, la Carta del Lavoro e la Camera delle corporazioni, la Costituzione della Rsi e lanostra  Costituzione? E infine cosa avranno in comune Mussolini, D’Annunzio, Mazzini, Bombacci?

Due semplici parole, rivoluzionarie nella loro essenza dirompente, corporativismo e socializzazione, la prima ormai entrata nell’immaginario collettivo nell’accezione assolutamente negativa di cura degli interessi particolari di singole categorie o di élite del denaro, la seconda orbata del suo significato più genuino e socialmente rivoluzionario. Ebbene la storia di queste idee, riprese dal fascismo ma che non si esauriscono nel Ventennio mussoliniano, è ora ripercorsa nello studio di Gianluca Passera, La nobile impresa (ediz. Il Cerchio). Un libro in cui si dà conto di come personaggi del calibro di Carnelutti, Panunzio, Spinelli, Sargenti, Olivetti, Galimberti e tanti altri da sponde opposte hanno tutti a loro modo cercato di dare un significato nuovo e pieno alla socializzazione. Nella storia economica e sociale che ha avvolto due secoli, tutti questi personaggi hanno cercato di dare una nuova visione della civiltà del lavoro, hanno cercato di creare la comunità del lavoro, cercando di elevare il concetto di lavoro da puro mezzo di arricchimento a terreno di collaborazione tra tutte le componenti di un tessuto produttivo. E tutto questo mentre un sindacalismo ottuso perdeva di vista l’interesse economico generale rincorrendo il potere numerico della classe.
La corporazione progettata come luogo di confronto delle esigenze datoriali e dei dipendenti, che poteva decidere le politiche economiche e produttive, la corporazione e il giudice del lavoro progettati assieme al sindacato unico come organi di controllo e di verifica dell’azione  economica del capitale, con potere di denuncia e censura se quel capitale avesse negato il concetto di economia comunitaria per interessi speculativi.   La socializzazione come metodo di cogestione della singola cellula produttiva, e di migliore ripartizione degli utili tra capitale, lavoro e reinvestimenti strutturali. Questo il nocciolo teorico che puntava al modello della “nobile impresa”. La terza via rinnegata in seguito da Pci, azionisti e sindacati classisti.

Quanto oggi di quella teoria economica potrebbe essere applicato per mitigare ed eliminare le disparità sociali che il turbocapitalismo sta producendo? Questo l’interrogativo lanciato dal libro di Passera con l’auspicio di tornare ad imboccare una strada che recuperi la funzione sociale dell’economia.

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