Egitto, gli investigatori si smentiscono: Regeni non è morto per una rapina
Caso Regeni: dall’Egitto arriva l’ennesima presunta verità locale sulla atroce morte del ricercatore friulano. L’ultimo depistaggio o solo un tentativo di provare a dare una risposta investigativa? Difficile dirlo: stando a quanto emerso nelle ultime ore comunque gli inquirenti egiziani hanno fatto sapere di aver «scoperto che la vittima è stata uccisa in un appartamento al centro della capitale e che, dopo, il suo corpo è stato trasportato sulla strada desertica» Cairo-Alessadria dove poi è stato ritrovato. Questa l’ultima ricostruzione dei fatti sostenuta dal sito del quotidiano indipendente egiziano Al Masry Al Youm senza citare fonti, ma dando conto delle «indagini della squadra di ricerca della Prefettura di sicurezza di Giza». Peccato, però, che insieme al luogo del delitto gli stessi investigatori additassero come movente dell’omicidio un tentativo di rapina finito male. Decisamente troppo male.
Regeni, l’ultima pista degli investigatori egiziani
Così, ancora una volta, gli investigatori al lavoro sul caso si vedono costretti all’ennesima smentita in corso d’opera e in un’informativa inviata alla Procura di Roma dichiarano che «non vi è nessun elemento che collega ad una rapina la morte di Giulio Regeni, il ricercatore universitario trovato morto in Egitto». Poi, come a suffragio di quest’ultima – per il momento – verità acquisita, gli inquirenti inviano le risultanze degli accertamenti eseguiti anticipando di essere alle prese con l’esame dei filmati delle telecamere installate nel quartiere El Dokki, dove il giovane viveva.
Le ipotesi riportate (e poi smentite) dai media locali
Seguendo dunque quest’ultima pista “individuata” dal pool di investigatori investiti del caso – composto da 17 ufficiali del settore della “Città del 6 ottobre” (il quartiere all’estrema periferia ovest della capitale egiziana dove è stato rinvenuto il corpo) e della Sicurezza nazionale – il sito Shorouknews, citando una fonte della Prefettura di sicurezza di Giza, il distretto amministrativo in cui ricade l’area, riferisce che «un certo numero»di persone che risiedono vicino all’appartamento della vittima, «coloro che abitavano con il giovane» ricercatore friulano torturato e ucciso al Cairo, sono state ascoltate dagli inquirenti egiziani. Non solo: Shorouknews scrive che gli investigatori al lavoro sul caso Regeni starebbero vagliando, tra «interrogatori», sopralluoghi e ipotesi investigative, le posizioni di «alcune persone sospettate di essere implicate nell’omicidio», la maggior parte delle quali sarebbero «criminali recidivi». Le indagini, però, al momento – aggiunge il sito – non avrebbero evidenziato l’implicazione di nessuno dei sospettati che, per questo, sono stati poi rilasciati. E ancora: citando gli investigatori, il sito Egyptindependent precisa che i «sospetti» possibili del caso Regeni sarebbero al momento 37. Un assunto, quello del delitto occasionale maturato in ambiente criminale, che non convince e rispetto al quale basterebbe a delegittimarne le fondamenta la brutalità con cui il ragazzo è stato torturato e ucciso.
Egitto, depistaggi e sordine ai giornalisti?
Una pista, quella seguita dal Cairo, che dopo i depistaggi dell’ipotetico incidente, del fantomatico arresto di due criminali comuni seguito al ritrovamento del corpo martoriato del povero Giulio Regeni, dell’avvistamento della vittima ad una festa la sera della sua sparizione, sembra voler puntare soprattutto a scagionare la polizia egiziana più che a trovare i veri responsabili di un omicidio tanto efferato. E infatti, a stretto giro dagli ultimi aggiornamenti diffusi, l’ambasciatore egiziano in Italia, Amr Helmy, in un intervista sul caso Regeni rilasciata a Radio anch’io ha tenuto a precisare che «il ragazzo non è mai stato sotto la custodia della nostra polizia. E noi non siamo così naif’ da uccidere un giovane italiano e gettare il suo corpo il giorno della visita del Ministro Guidi al Cairo». Di più: «Dovete capire – ha aggiunto Amr Helmy – che lanciare delle accuse pesanti contro le forze di sicurezza egiziane senza alcuna prova può danneggiare i nostri rapporti. Spero che la verità venga fuori il prima possibile. Non abbiamo nulla da nascondere». Intanto, però, dalla denuncia di Khaled El Balshy, presidente del Comitato Libertà del Sindacato dei giornalisti egiziani, che in un’intervista a Repubblica snocciola i numeri, si apprende che: «Fatte le debite proporzioni sul numero di abitanti, in Egitto nel 2015 sono finiti in cella più giornalisti che in Cina», e che, « l’anno scorso nel Paese sono state commesse 782 violazioni documentate contro reporter colpevoli di svolgere il loro lavoro. El Balshy punta il dito contro il ministro degli Interni Magdy Abdel Ghaffar. «Più del 50% delle violazioni è commesso dal ministero degli Interni», spiega l’intervistato. «Ogni giorno in media ci sono due violazioni contro la libertà di stampa in Egitto. Ci sono arresti arbitrari, casi di detenzione, intimidazioni e minacce». El Balshy non fa sconti nemmeno alle agenzie di sicurezza o alla Polizia e cita come esempi «la restrizione di viaggio per i reporter, la chiusura di redazioni, di tipografie, le incursioni della Sicurezza nelle sedi di media e gli ordini di censura imposti dal Procuratore generale nel 2015 in una quantità senza precedenti».