Fabrizio De Andrè: a 17 anni dalla morte un mito ancora intatto

11 Gen 2016 19:01 - di Domenico Labra

Fabrizio De Andrè. Ovvero l’autore. Il cantautore. Il poeta. Forse il più grande di una generazione. Scomparso proprio 17 anni fa come oggi. Oggi che il mondo piange David Bowie. Due così grandi e così distanti. Due artisti. Fabrizio De Andrè ha accompagnato nella crescita, con la sua melodia e le sue chitarre, almeno un paio di generazioni. Da quella Genova così fertile di talenti in musica all’Italia intera. Un’altra Italia. Diversa e divisa. Percorsa da passioni virulente e sanguinosissime. L’Italia senza Facebook e senza smartphone. L’Italia della scala mobile e dell’inflazione a due cifre che però non spaventava nessuno. L’Italia della Lira nel serpente monetario che dava fastidio e più di un problema al Marco tedesco non ancora egemone. L’Italia di Fabrizio De Andrè. Un po’ anarchica e un po’ libertaria. L’Italia delle prostitute protagoniste delle sue ballate. L’Italia che scopriva i concerti. E accorreva in massa a quelli mitici, indimenticabili di Fabrizio De Andrè con la PFM (la “Premiata Forneria Marconi” di Franz Di Cioccio). Tour irresistibili negli stadi italiani. Sgangherati già allora. Fabrizio De Andrè è stato un collante. Nonchè una sordina dolce e suadente dei furori giovanili e dei conflitti di quegli anni. Una voce di impegno che si è davvero sforzata di essere controcorrente. Di non appecoronarsi. Poco incline a recitare a fianco dell’ortodossia musicale di allora. La musica per la musica e per dire qualcosa di vero, di autentico. E doloroso. Come dolorosa era la vita. Forse per questo, a diciassette anni dalla sua morte la sua produzione artistica è sempre piacevole e coinvolgente. Ascoltarlo certo, ci riporta indietro, alla nostra migliore stagione. Ma ci costringe in qualche modo anche riflettere sulle assurde frenesie e sui drammi che ci infliggiamo nel quotidiano. Una panacea di note e di poesia che forse non cura. Ma che sicuramente conforta.

 

 

 

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