Terrorismo, chiesto il processo per Fatima, l’irriducibile jihadista italiana

16 Nov 2015 14:28 - di Ginevra Sorrentino
jihad maria giulia sergio fatima

Fatima a processo: la Procura di Milano ha chiesto il processo per Maria Giulia “Fatima” Sergio, il padre Sergio, la sorella Marianna e altri 8, accusati a vario titolo di associazione per delinquere con finalità di terrorismo, e favoreggiamento. Per i pm gli 11 avrebbero aderito all’Isis e Fatima, latitante, è in Siria con il marito jihadista.

Fatima, chiesto il rinvio a giudizio

La richiesta di rinvio a giudizio è firmata dal Procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e dal pm Paola Pirotta, titolari delle indagini che lo scorso luglio avevano portato a emettere ordinanze di custodia cautelare in carcere nei confronti di nove presunti jihadisti (5 dei quali latitanti), tra cui appunto il padre, la madre (morta lo scorso 6 ottobre) di Fatima e sua sorella Marianna. Maria Giulia Sergio, la prima foreign fighter italiana al centro di un’inchiesta, secondo la ricostruzione dei pm, si è addestrata per mesi per combattere a fianco delle milizie del sedicente Stato Islamico in Siria (si è più volte detta pronta al «martirio» e stava «imparando a sparare» con il kalashnikov) dove si trova tuttora con il marito, albanese e anche lui indagato, il mujaheddin (addestrato in Iraq), Aldo “Said” Kobuzi. La prima jihadista italiana, nota anche per l’efferatezza delle sue invettive contro il “nemico occidentale” spregiativamente definito “miscredente” e per le sconcertanti dichiarazioni di giubilo seguite all’eccidio nella redazione di Charlie Hebdo, da un paese del Milanese, ha raggiunto insieme al marito il Califfato già nel settembre 2014 e da lì, via Skype, avrebbe incitato – a più riprese – familiari e amici a seguire il messaggio del Abubakr Al Baghdadi. Per lei, come per il leader dell’Isis, il «musulmano che non può raggiungere lo Stato Islamico è chiamato a compiere obbligatoriamente il jihad nel luogo in cui si trova, e il jihad consiste nell’uccidere i miscredenti». E ancora: «Noi qui – aveva detto recentemente – stiamo ammazzando i miscredenti per poter allargare lo Stato Islamico».

L’«opera di convincimento» alla jihad

Nell’inchiesta, poi, sono spuntati i nomi di arruolatori e reclutatori dell’Isis, tra cui il turco Ahmed Abu Alharith, «coordinatore dell’arrivo dei foreign fighters in Siria», un libico, «coordinatore dell’invio dei combattenti», e Abu Sawarin, «responsabile dei “francesi” in arrivo nel territorio dello Stato Islamico». Gli investigatori, analizzando i tabulati di un arruolatore, hanno tracciato una mappa «della provenienza degli aspiranti combattenti»: Afghanistan, Algeria, Marocco, Arabia Saudita, Georgia, Libia, Libano, Francia, Oman, Svezia, Iraq, Svizzera e San Marino. L’opera di «convincimento» da parte dei miliziani dell’Isis sui loro familiari, si legge nelle carte, è inoltre prerogativa di tutti i terroristi in Siria. E non è un caso, allora, che tra le persone per cui a Milano è stato chiesto il processo, figurino anche Donika Coku, Baki Coku e Arta Kakabuni, la madre e i due zii di Aldo Kobuzi, e la cittadina canadese Haik Bushra, 30 anni, anche lei latitante, accusata di aver svolto un ruolo decisivo «nell’arruolamento» di Fatima e della sorella, e due favoreggiatori che non furono arrestati nel luglio scorso. Ma, a giudicare da quanto ricostruito dagli inquirenti e riportato nelle carte dei magistrati e, soprattutto, da quanto postato nel tempo da Fatima sul web, la jihadista italiana appare tra i più convinti e irriducibili foreign figheters al servizio del Califfo del terrore.

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