Proibito manifestare contro l’aborto: così Bologna ridiventa Stalingrado
Aborto, si riaccende la battaglia. Ma questa volta a invocare la “repressione“ sono vecchie femministe, Cgil e lega delle associazioni di gay, lesbiche e transgender (lgtb). Tutti questi “rivoluzionari” invocano nientemeno che l’autorità prefettizia contro la “9 ore di preghiera” indetta dal Comitato “No 194” (dalla denominazione, appunto, della legge che ha legalizzato l’aborto) per il 13 giugno a Bologna. A chi può far paura un gruppo di persone che prega in piazza? Solo a fanatici in servizio permanente effettivo, che parlano di «attacchi di stampo integralista e misogino che hanno il solo obiettivo di alimentare comportamenti violenti». Così si legge infatti in un comunicato dell’Udi (la vecchia associazione che un tempo riuniva le femministe vicine al Pci), in cui si invitano i prefetti a vietare queste manifestazioni «perché le funebri litanie dei preganti contro la legge 194 sono, di fatto, intimidazioni che hanno come bersaglio le donne e il personale medico non obiettore, oltre che una legge dello Stato».
Chi può “intimidire” la recita di una preghiera? Viene (amaramente) da sorridere al pensiero che questa gente è sempre pronta a difendere i no-global spaccavetrine, i lanciatori di molotov e petardi, gli sprangatori impuniti. È dunque la preghiera il massimo “scandalo”, soprattutto se volta alla riparazione del crimine dell’aborto. Non siamo a Mosca al tempo di Stalin, siamo a Bologna al tempo del sindaco Merola, ma alla fine, gratta gratta, riemerge sempre il vecchio spirito di intolleranza del vecchio ideologismo di stampo comunista. Insomma, il prossimo 13 giugno s’annuncia proprio come una giornata da ordalia, con i laicisti scatenati e i vecchi eredi del Pci lanciati in una “crociata” segno contrario.