Ecco perché ha perso Caldoro, ottimo amministratore ma leader riluttante
Esiste una chiave di lettura meno “algebrica” per decifrare la sconfitta di misura di Stefano Caldoro in Campania. Una chiave psico-politica che rinvia alla fenomenologia del governatore uscente, alla sua allergia alle incandescenti temperature della politica, cui ha sempre preferito il tepore rassicurante dell’amministrazione oculata, dei bilanci in ordine e della competenza tecnica.
Non è bastato sciorinare la buona performance sulla sanità
Caldoro è stato tutto questo: ha rimesso in sesto la disastrata sanità campana ed ha tenuto in equilibrio la sua maggioranza dopo lo sconquasso prodotto dall’archiviazione del Pdl e dall’azzeramento per via giudiziaria (ma non solo) di gran parte della sua classe dirigente, quella – per intenderci – che aveva sfrattato Bassolino. Infine, ha saputo utilizzare più e meglio dei suoi predecessori i fondi messi a disposizione dall’Europa. Tuttavia e nonostante l’ottima performance di governo, ha perso. Certo, ha perso perché De Mita si è sfilato in a poche ore dalla presentazione delle liste preceduto da un gruppo di “cosentiniani” trasmigrati da oltre un anno alla corte di De Luca. Ma tutto questo è già conseguenza piuttosto che origine di un disagio.
Caldoro si è rifiutato di dare spessore politico alla propria leadership
In realtà, Caldoro è uscito sconfitto perché non ha mai voluto conferire spessore politico alla propria azione di governo. In parte è perfino comprensibile dopo i fuochi d’artificio bassoliniani a base di coordinamenti di governatori del Sud, di cumulo di cariche tra ruoli nazionali e territoriali, di laboratori regionali da esportare. A tutto ciò Caldoro ha opposto il proprio temperamento british. Un po’ come la quaresima dopo il carnevale. E così, tra l’assumere la leadership politica della coalizione di cui era già formalmente a capo e l’acconciarsi a notaio di un’alleanza amministrativa, ha scelto senza indugio quest’ultima strada. Così si spiega l’assenza di un messaggio vero, politicamente mobilitante, in campagna elettorale ed il tentativo di rimediarvi sciorinando i risultati ottenuti sulla sanità e battendo (pure lui, garantista) la clava sulla testa dei cosiddetti impresentabili, confidando, forse, che additare la mannaia incombente della Severino sul capo del concorrente gli avrebbe spianato la strada. Alla fine è risultato tutto inutile, anche il “bollino nero” con cui Rosy Bindi ha tentato di mascariare De Luca in zona Cesarini. Persino il compassato Alfano ne è era rimasto entusiasta: «Ora è come calciare un rigore a porta vuota», aveva sentenziato commentando l’inserimento dell’ex-sindaco di Salerno nella black list dell’Antimafia. Mai metafora si rivelò più nefasta. Purtroppo.