L’agente picchiato a Milano: «Io vittima di un’imboscata, preso a calci e pugni»

4 Mag 2015 12:08 - di Giulia Melodia

L’agente picchiato: per il web è un eroe. Per i media è il simbolo di quanto accaduto venerdì a Milano, ma lui si schernisce: «Facevo solo il mio lavoro». È in queste parole del vicequestore Antonio D’Urso, finito sotto una gragniuola di colpi, calci, sprangate e spinte dei black bloc, il riassunto di quanto drammaticamente vissuto da Milano lo scorso 1 maggio, e oggi, dopo la messa e ferro e fuoco della città, mentre i cittadini oltraggiati si riprendono i quartieri devastati e scendono in piazza armati di secchi, spugne e detergenti per ripulire dallo sfregio mura e vetrine massacrate dai black bloc, molti dei rappresentanti delle forze dell’ordine schierati venerdì ad arginare l’onda d’urto dei manifestanti No Expo cominciano a parlare, denunciando la loro rabbia e la loro frustrazione per la violenza subita, e le mancanze e gli errori della gestione dell’ordine pubblico.

L’agente picchiato: io vittima di un’imboscata

«Io ero lì a fare il mio lavoro, che in quel momento era fermare questi delinquenti che lanciavano di tutto nascondendosi dietro gli alberi. Sono scivolato a terra sull’erba bagnata. Poi giù sul marciapiede. Hanno iniziato a prendermi a calci, pugni e mazzate. Per fortuna avevo il casco, altrimenti non so come sarebbe finita». A raccontarlo a Repubblica è il vicequestore Antonio D’Urso, l’agente picchiato dai black bloc il primo maggio a Milano. Per il web è un eroe, ma lui minimizza sostenendo semplicemente di aver fatto il proprio dovere e di essere stato attaccato nell’esercizio delle sue funzioni. Eppure, il racconto di quei minuti di violenza cieca e di aggressività sfrenata è agghiacciante. D’Urso spiega di essere caduto in una «imboscata» mentre stava fermando una black bloc: «La riconosco, in mezzo alle piante. Il mio dovere era arrestarla. Mi avvicino e la afferro per un braccio. Lei si gira di scatto e mi tira contro una bottiglia, che riesco a schivare. La stavo portando dai colleghi, quando sono usciti da un cespuglio alcuni suoi compagni», dice l’uomo che poi, entrando nel vivo del racconto dell’aggressione, aggiunge: «Mi hanno spinto e sono caduto a terra. Uno, con la maschera antigas, cercava di spaccarmi la visiera con un oggetto di ferro. L’ altro mi colpiva con un bastone. Non mi aspettavo l’agguato, non pensavo sarebbero usciti altri in quel momento», prosegue il vicequestore D’Urso, sottolineando di non aver commesso un azzardo. «Non mi sono allontanato. Il reparto era alle mie spalle. La prospettiva delle fotografie inganna: in realtà, dopo l’agguato e quando cado a terra, nel giro di pochi secondi sono arrivati subito i colleghi a salvarmi». Altrimenti l’epilogo avrebbe potuto essere decisamente diverso…

Gli scontri visti dai poliziotti

C’è molto rammarico nei resoconti del day after disseminati nei vari servizi che stampa e tv hanno dedicato ai poliziotti in piazza alle prese con la valanga nera di anarchici, violenti, facinorosi e banali delinquenti arruolati ad hoc. «Ci sono stati dei momenti in cui tutti noi sapevamo che si potevano prendere, fermare. Ma il funzionario ha detto no. Era un ordine e noi agli ordini dobbiamo obbedire. Ci sono alcuni funzionari che i gradi sembrano averli vinti con i punti delle merendine»… Questo, tra gli altri, l’amaro resoconto di un agente di polizia in servizio a Milano il primo maggio, stilato in un’intervista resa a Qn. «A un certo punto li avevamo chiusi in una piazza. In quel momento i black bloc si potevano bloccare, se ne potevano fermare parecchi. Bastava spostare un po’ di uomini e si potevano chiudere del tutto. È vero che avremmo sguarnito il presidio verso la Scala, ma si poteva ridislocare anche solo una parte degli agenti», racconta l’uomo, osservando che «già dalla vigilia si sapeva che l’orientamento» sarebbe stato quello «di evitare il contatto a tutti i costi». Una disposizione preventiva e un risultato finale che alimentano di frustrazione le parole del poliziotto, che ha infatti concluso: «Fa rabbia vedere la gente che piange perché ha il negozio distrutto». Come fa male, sicuramente, rispondere alle persone che ti chiedono «perché non li hai fermati». «Veniamo addestrati per fare queste cose, ma se poi non le dobbiamo fare, perché ci addestriamo?», ha chiosato l’agente proponendo un interrogativo che apre ad altre inquietanti domande.

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