Agghiacciante: per comparire sui social network avvelenava il figlio
Una vicenda agghiacciante, che porta alla luce la potenziale nocività dei social network sulle menti deboli e malate. Per anni, attraverso i social media, una donna del Kentucky, Lacey Spears, ha raccontato la “misteriosa” malattia che aveva colpito il suo bambino, Garnett. Ora, un tribunale dello Stato di New York l’ha giudicata colpevole di averlo lentamente e sistematicamente avvelenato, con il sale, fino a farlo morire, a cinque anni, il 23 gennaio 2014. Attraverso Twitter, Facebook e un suo blog, Lacey Spears ha raccontato ogni aspetto della fragile salute del suo “Garnett il Grande”, o “Dolce Angelo” come lo chiamava. E riferiva ogni volta che veniva ricoverato in ospedale. Decine di volte. Per vari problemi, come febbre alta, disturbi all’apparato digerente, infezioni. Ma solo quando Garnett stava ormai morendo i medici si sono resi conto del grande quantitativo di sodio che aveva assorbito. E al processo, l’accusa ha dimostrato che era stata la madre ad iniettarglielo, attraverso una sonda gastrica con cui lo alimentava.
Un lento avvelenamento col sale del figlio
Tra le altre prove, due sonde trovate in casa sua sono risultate positive al sodio, ed è emerso che aveva usato il computer per fare una ricerca sui pericoli del sodio. Al processo, il suo avvocato ha sostenuto che Spears era una buona madre, e che non e stato trovato un movente plausibile. Nessuna prova ha risposto a una chiara domanda: «Perché?». Il procuratore ha dal canto suo affermato che la donna, che ora ha 27 anni, godeva nell’attirare l’attenzione nei social media. «Il motivo è bizzarro, è spaventoso, ma esiste», ha affermato aggiungendo che Spears «apparentemente crogiolava per l’attenzione che aveva dalla sua famiglia, dai suoi amici, i suoi colleghi, e in particolare i medici». E ora «non è più la madre di Garnett, perché l’ha assassinato». Alla lettura del verdetto di colpevolezza, Lacey Spears è rimasta pressoché impassibile. La condanna verrà resa nota l’8 aprile. Rischia fino a 25 anni di prigione, come richiesto dall’accusa. Pochi.