Acca Larenzia il giorno dopo: mettere fine alla maledizione (video)

8 Gen 2015 15:20 - di Fabio Rampelli

Non so quanto senso possa avere raccontare il proprio ricordo di Acca Larenzia. Ne ho letti negli anni. Cronache, bilanci, ricostruzioni, ognuno ha messo in campo la propria esperienza, ognuno l’ha decorata con emozioni originali a comporre una storia triste e autentica. Io non lo farò, non ora. Anche le analisi politiche sono state trasbordanti, in quattro decenni si è potuto scrivere di tutto. In verità la strage di Acca Larenzia rimane ancora oggi un mistero, un conto perennemente aperto, una ferita non rimarginata. Tutto ciò che di tragico accade a un certo punto trova un suo equilibrio, quasi una ragione che allevia le pene, ma per quel freddo giorno di gennaio sembra affermarsi la logica dell’eterno disordine.

Nessuna giustizia

La giustizia non ha cercato i killer di Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, dunque non li ha trovati, ed è stata così clemente con il Capitano dei carabinieri Edoardo Sivori da farne uno spavaldo politicante che querela chiunque lo accusi di aver sparato a Stefano Recchioni e di averlo colpito a morte dopo aver chiesto a un attendente un’altra pistola (la sua, scrivono molte cronache, si sarebbe inceppata). Magari nella mediocrità troverà la sua ricchezza a furia di presentare denunce. Ironia della sorte, da possibile carnefice a possidente… I carabinieri che sparano ad altezza d’uomo su un giovane missino sono un’altra anomalia che stride con il “sodalizio” tra il Movimento Sociale Italiano e le forze dell’ordine, difficile da gestire per Giorgio Almirante che proponeva la “doppia pena di morte” per i terroristi di destra. Comprensibili e tuttavia paradossali furono, per un partito ispirato all’ordine e alla disciplina, gli scontri su Via delle Cave scatenati dopo l’agguato: le auto rovesciate, le bottiglie incendiarie, le pistolettate con i celerini visualizzarono la contrapposizione dei giovani di destra con poliziotti e carabinieri.

Ancora sangue

Inverosimile fu l’abbattimento di un altro ragazzo diciannovenne, Alberto Giaquinto, da parte dell’agente di polizia Alessio Speranza che lo colpì alla nuca con un colpo d’arma da fuoco proprio mentre celebrava il primo anniversario di quella strage, manifestando contro una sede della Dc. Silenzioso e sconvolgente fu il suicidio di papà Ciavatta, portiere nello stabile di Via Deruta 19 nel quartiere Tuscolano, non riuscì a dominare la disperazione per la perdita del figliolo e inghiottì una bottiglia di acido muriatico. Dilaniante fu la confessione di Francesca Mambro, attivista di Via Noto, quando legò la scelta della lotta armata agli occhi azzurri di Stefano Recchioni, prima che si chiudessero per sempre. Mostruoso fu scoprire che la mitraglietta Skorpion era stata usata dalle Brigate Rosse, nel cui covo di Milano fu ritrovata nel 1988, per colpire a morte l’economista Ezio Tarantelli, l’ex sindaco di Firenze Lando Conti e il senatore democristiano Roberto Ruffilli. Cinico oltre il pensabile fu il gruppo di fuoco che assaltò la sede missina quel giorno con l’intenzione premeditata di uccidere per dimostrare alle Br di essere all’altezza di un reclutamento nelle loro file. Tre ragazzi imberbi morti ammazzati e nessun colpevole. Circostanze che sarebbero sembrate fuori posto nella più intrigata trama di un film dell’orrore. 

Mai più memoria di parte

Finita la stagione del sangue la maledizione è proseguita. Nessuna intitolazione toponomastica è stata possibile in memoria dei tre ragazzi assassinati, il confronto con gli attivisti della sede e il “Campidoglio amico” non ha dato risultati positivi. Ogni 7 gennaio l’arcipelago di sigle della destra e dell’ultradestra sfila nel piazzale, spesso senza trovare una sintesi politica, nemmeno in nome della morte. La raggiunta “pacificazione” con la sinistra potrebbe finalmente dare riconoscimento a Franco, Francesco e Stefano, farli riposare in pace e inserirli a pieno titolo nella storia d’Italia, come è stato per Paolo Di Nella e i fratelli Mattei. Non più memoria di parte, ma racconto in cui far riconoscere tutti gli italiani.

Il carosello dell’assurdo

E invece sembra che quei sacrifici, il più grande tributo di sangue e la più gigantesca sequenza di tragedie connesse mai avvenute a destra dal secondo dopoguerra, siano destinati a non veder germogliare altro che un ricordo spezzettato e improduttivo. L’immensa parcellizzazione di sentimenti impedisce a un dolore che ha prodotto suicidi, nuovi assassinii, scelte estreme, di costruire la storia buona, quella che supera le nefandezze sublimandole, quella che partendo dagli opposti estremismi approda alla comunità, nel nome della nazione. Ossimori, contrasti, paradossi, negligenze, incomprensioni, rancori attivano il carosello dell’assurdo. Chi raccoglierà il gesto significativo voluto ieri da un sindaco postcomunista, finalmente risvegliato dal lungo sonno, che ha fatto deporre una corona del Campidoglio sul luogo dove stramazzò Ciavatta, rincorso e nuovamente colpito dai sanguinari mentre fuggiva rincorrendo la vita?

Tacciano gli esegeti

Perché l’anima di questa strage fugge dall’intelletto e il pathos rinnega la strategia? Possibile non ci si renda conto, a 37 anni di distanza da quel 7 gennaio 1978, che nessuno vale un soldo bucato davanti a quell’esecuzione, nessuno può arrogarsi il diritto di interpretare, imporre la sua visione, bestemmiare? In ogni luogo dove un combattente ha lasciato la sua linfa vitale è lui che comanda, batte il tempo, scandisce i passi, anima gesti e riti. È la stagione dell’amore senza condizioni, del dono disinteressato, del senso dato a una morte innocente, della dignità riconosciuta a una vita spesa per l’Italia, nell’illusione che la propria militanza potesse impedirle di essere fagocitata dal materialismo e menomata della libertà e dell’identità. Quante belle cose si sprigionano da una stilla di sangue. Ti viene voglia di ricordarlo al mondo, lasciando in un angolo le prove muscolari, ascoltando il sibilo di quei ragazzi e incarnandone l’esempio nel silenzio. Sono morti per l’Italia non per una fazione, facciamocene tutti una ragione e tacciano gli esegeti.

Video realizzato dal Secolo d’Italia in occasione del 35mo anniversario

Commenti

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  • Paolo Gruosi 8 Gennaio 2018

    <3 …. ho vissuto tutto il 'precedente'..ma nel 77 lasciai Roma e dove abitavo(sopra l'Appio Latino) quando non in caserma A.M… e fui trasferito in Toscana. Onore a loro e giustizia avvenga prima ..o poi.