Fondi strutturali, radiografia di uno spreco infinito

7 Lug 2014 15:02 - di Silvano Moffa

Torna a far discutere l’uso che  l’Italia fa dei fondi europei. Questa volta a rendere più inquietante l’argomento sono i dati  contenuti in un dossier di Roberto Perotti e Filippo Teoldi pubblicato sul sito della Voce.info. Procediamo con ordine. Prendiamo i fondi strutturali. Si tratta di interventi cofinanziati, ossia parte dei fondi provengono dall’Europa e parte dallo Stato, che li gira alle Regioni cui spetta l’onere di selezionare i progetti e controllarne l’esecuzione. Si chiamano strutturali perché concepiti per superare gap infrastrutturali  e divari sociali tra le aree più sviluppate e quelle più arretrate. Questo in teoria. Nella prassi, invece, vengono impiegati per una miriade di progetti di cui nessuno è in grado di valutarne gli effetti.  In cinque anni sono stati finanziati qualcosa come 504 mila progetti di formazione, per una spesa di quasi 7 miliardi e mezzo. Con quali risultati ? Pessimi. Secondo il dossier Perotti-Teoldi sono stati elaborati montagne di documenti, articolati piani più o meno fantasiosi, sfornate tabelle ardite sui possibili impatti occupazionali con il risultato di veder crescere solo la fabbrica dei corsi di formazione. “Un’industria che non conosce crisi”, si legge nel rapporto, e tiene in vita “decine di centri di ricerca” che hanno prodotto tra il 2007 e il 2011 bel 280 documenti di valutazione, per la gran parte “inutili, un sottobosco nel sottobosco”. Ci sono casi davvero eclatanti, come quello della Regione Lazio che ha destinato un quinto dei contributi Fse (fondo sociale europeo), pari a 700 milioni, a corsi per estetista, senza che nessuno da Bruxelles chiedesse una benché minima  motivazione. Il Lazio non è l’unica Regione ad essersi comportata in modo così dissennato. Le altre Regioni non sono da meno. Proprio con riferimento ai corsi di formazione, se si getta lo sguardo al loro esito in termini di occupazione e di creazione di nuovi posti di lavoro, nel raffronto con gli altri Paesi i dati sono agghiaccianti. Solo il 14 % dei corsisti, al termine delle attività, nel 2013, risulta occupato, contro l’85 % della Francia  e il 35% della Germania. Il dossier arriva, peraltro, dopo che la Corte dei Conti, nel febbraio scorso, ha fissato in circa un miliardo  e 200 milioni la cifra degli “eurofurti”. Una mole impressionante di risorse finite nella rete del malaffare, delle frodi, dei progetti insistenti, degli incarichi clientelari, delle spese gonfiate a dismisura. Insomma, dell’uso  dei fondi strutturali hanno beneficiato sindacati, assessorati regionali e provinciali, una pletora di burocrati , “maestri dello spreco “, autentici parassiti che hanno visto ingrossare il loro potere nel tempo.  Quanto basta per far dire ai due ricercatori che sarebbe meglio “non chiedere più soldi a Bruxelles, così non rischiamo di vederli finire in quelle mani”. Tesi stravagante.  Eppure, basterebbero alcune poche e chiare regole per far funzionare le cose: controlli di valutazione ex post seri e meticolosi, per esempio, sui progetti; una regia centrale dotata di poteri effettivi di verifica sui piani regionali, che possa intervenire in corso d’opera quando si dilatano i tempi di esecuzione; un diretto coinvolgimento delle Regioni nel cofinanziamento per responsabilizzarle maggiormente; una programmazione definita in ambito nazionale che sfugga alle pressioni esercitate sul piano locale, foriere di scombinati piani di attuazione e di una parcellizzazione dei finanziamenti in opere di poco impatto sul piano dello sviluppo e dell’occupazione. Per tutto questo  ci vorrebbero delle riforme puntuali. Quelle di cui molto si parla. Purtroppo senza costrutto.

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