Nessuno ha accolto gli azzurri. Nel ’66 furono invece pomodorate. Perché gli italiani non s’arrabbiano più?

26 Giu 2014 18:15 - di Aldo Di Lello

Davvero mesto il rientro in Italia degli azzurri reduci dal disastro brasialiano. All’aeroporto di Fiumicino non c’era nessuno ad attenderli, a parte un bambino con la bandiera tricolore arrotolata che si è subito allontanato con il padre. L’unica, chiamiamola così, accoglienza è stata riservata solo da un gruppetto di lavoratori aeroportuali: qualche foto, qualche applauso a De Rossi e Candreva (ma solo in virtù dell’appartenenza, rispettivamente, al club della Roma e a quello della Lazio). Per il resto, il deserto dei tartari. I tifosi italiani hanno decretato la solitudine per gli ammaccati moschettieri di Prandelli. Neanche un fischio, neanche una invettiva. Solo un fragoroso silenzio. Questa indifferenza è, a suo modo, un segno dei tempi. Dà l’idea di un Paese che non si arrabbia più, che non reagisce, che non si indigna, che assiste fatalisticamente alla “morte” del calcio. E sì, perché di questo si tratta. La disfatta di Natal è lo specchio del “male oscuro” che affligge il gioco più amato dagli italiani. È lo specchio degli stadi vuoti per la paura della violenza, lo specchio degli scandali, dell’enorme giro d’affari della scommesse clandestine, dell’overdose di chiacchiere che drammatizzano spesso  il nulla. «Gli italiani – disse Churchill –perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio». Ma oggi l’Italia è stanca: ha perso la “guerra” dei mondiali 2014 e non sembra importagliene nulla. Un segno dei tempi, appunto.

Torna alla memoria un’altra brutta esperienza nella storia della Nazionale italiana, quella che è ancora ricordata come la pagina più umiliante per il nostro calcio: l’eliminazione dai mondiali del 1966 in Inghilterra a seguito della sconfitta con la Corea del Nord, sconfitta per mano del calciatore-dentista Pak Doo Ik (che è a lungo comparso negli incubi degli italiani, allo stesso modo in cui, in questi giorni, vi compaiono “hannibal” Suarez e “dracula” Rodriguez Moreno). Allora però l’accoglienza dei tifosi italiani per gli azzurri sconfitti fu assai più fragorosa e vivace. Fiutando una brutta aria, i dirigenti federali pensarono bene di far rientrare i calciatori di notte. Ma non servì a nulla. Ad attenderli all’aeroporto di Genova c’erano seicento tifosi armati di pomodori. Gli azzurri finirono sotto un diluvio di ortaggi. Il più bersagliato fu il ct Edmondo Fabbri. Il fatto è che gli italiani allora si arrabbiavano. Però agli stadi ci si poteva andare con la famiglia. Non c’era violenza. Le scommesse clandestine erano un fenomeno limitato. I bambini crescevano collezionando le figurine dei calcatori. Due anni dopo, nel 1968, la Nazionale italiana vinse i campionati europei ( e rimane l’unica volta nella sua storia). Quattro anni dopo, nei mondiali del 1970 in Messico, gli azzurri riuscirono a disputare la finalissima. Persero male con il Brasile di Pelè, ma entrarono egualmente nella leggenda per via dell’epica semifinale con la Germania. Arrabbiarsi serve a qualcosa. Ogni tanto. 

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