Tian An Men, vietato ricordare: il governo comunista ordina l’arresto “preventivo” di dissidenti
È passato un quarto di secolo dalla rivolta di piazza Tian An Men. Per la Cina post-maoista fu un trauma non ancora rimosso. Per l’Occidente l’illusione di vedere avviato anche a Pechino un processo di democratizzazione delle istituzioni. Finì in un bagno di sangue. Nella notte tra il 3 ed il 4 giugno di venticinque anni fa gli studenti che da due mesi occupavano la piazza centrale della capitale reclamando la democrazia vennero massacrati da reparti del Pla, l’Esercito di Liberazione Popolare. A centinaia furono uccisi nella piazza e nelle strade vicine nel corso degli scontri tra militari e cittadini, con questi ultimi che facevano scudo con il proprio corpo pur di impedire ai primi di raggiungere Tian An Men. Il numero esatto dei morti non è mai stato reso noto dalle autorità.
Come sempre, l’Occidente non andò oltre un imbarazzato balbettìo di convenienza. Troppo grande, troppo popoloso, troppo potente il Drago cinese per poter davvero sfidarlo sul terreno del rispetto dei diritti umani. Si poteva boicottare il Cile di Pinochet non certo la Cina del dopo-Mao. E infatti i numeri attuali dell’economia “gialla”, micidiale impasto tra comunismo e capitalismo di Stato, hanno travolto tutte le certezze che per oltre mezzo secolo hanno regolato i rapporti commerciali tra le nazioni ed i continenti. Ma di democrazia, di libere istituzioni alimentate dalla fiducia e dal consenso popolare, neanche l’ombra, neanche oggi.
Lo dimostra la ferocia con cui la polizia, in queste stesse ore, ha arrestato un numero record di dissidenti. La loro colpa? Nessuna. Sta per scoccare l’anniversario dell’eroica rivolta e del terribile massacro e chi non è in linea con il regime comunista deve semplicemente “sparire”. Alcuni sono stati interrogati, altri spiati. A nessuno è stata contestata un’ipotesi di reato. Sul suo sito, il gruppo Human Rights in China pubblica un elenco di circa 60 nomi tra cui quello di Pu Zhiqiang, avvocato, di Ding Zilin, fondatrice delle “Madri di piazza Tian an men”, e della giornalista Gao Yu. Si tratta della risposta “più aspra e più dura che si sia mai vista”, ha dichiarato Maya Wong, attivista della Human Rights Watch, con base ad Hong Kong.
C’è da crederle. Ad Est niente di nuovo. E, in fondo, all’Occidente va bene così.