Renzi annuncia il nuovo servizio civile. Ma così non si riscopre il senso della Patria

13 Mag 2014 18:27 - di Lando Chiarini

Sarà stata forse la volontà di distinguere il suo governo dall’aria fetida che da giorni incombe come una cappa nera sull’Expo milanese ad indurre Renzi ad approfittare della sua trasferta nella Capitale morale per annunciare la riforma del Terzo Settore. Sul testo ha lavorato il ministro Boschi e da oggi fino al prossimo 13 giugno è aperta una pubblica consultazione sulle lineee guida del provvedimento da cui nascerà un disegno di legge delega che approderà nel consiglio dei ministri il 27 dello stesso mese. Si tratta di un provvedimento ad ampio raggio che spazia da un nuovo modello di welafre, definito dalla bozza “partecipativo” ad un non meglio precisato “servizio civile universale” per 100.000 giovani all’anno nel primo triennio, della durata di 8 mesi prorogabili di 4, cui possono partecipare anche gli stranieri. Tale servizio, che rappresenta la maggiore novità del provvedimento, si configura come una “leva per la difesa della patria”. E qui, forse, qualche riflessione non conforme si impone.

Il servizio civile in Italia istituito nel 2001 e dal 2005 svolto su base esclusivamente volontaria si è risolto  – tranne che in qualche regione – in un clamoroso fallimento. Della missione di “difendere la patria” sancito dall’articolo 52 della Costituzione attraverso “la condivisione di valori comuni e fondanti l’ordinamento democratico” non v’è traccia. Che si consideri l’assistenza, l’ambiente o la tutela del patrimonio artistico e culturale i risultati conseguiti dal servizio civile sono in profondo rosso. Tra le aree di intervento dell’azione di questa forma di volontariato, qualche meritoria differenza si coglie nel settore della Protezione Civile. Occorrerà attendere la conclusione della pubblica consultazione e quindi il varo del testo su cui il governo chiederà la delega per capire se il progetto annunciato da Renzi correggerà l’attuale impostazione o – come temiamo – ne amplificherà il disastro.

Nel frattempo, ci limitiamo ad un paio di riflessioni eretiche. La prima: occorre riconoscere che l’abolizione della naja obbligatoria è stata un errore. Forze armate di popolo significava filtro sanitario per circa metà della popolazione adulta, integrazione culturale della nazione, minore separatezza e maggior contaminazione tra etica militare e spirito civico. Se si esclude il primo, sostituito dalle migliorate condizioni di vita e da un sistema sanitario diffuso che con tutte le sue pecche è il secondo al mondo, degli altri due si sente – eccome! – la mancanza. Ma tant’è: una sapiente e fuorviante propaganda dei decenni scorsi ci ha fatto credere che non si potesse essere nello stesso tempo buoni soldati e cittadini “democratici”. I risultati si vedono e non sono incoraggianti: l’Italia è sfilacciata da diatribe territoriali e dei nostri “professionisti” in divisa ci ricordiamo solo quando qualcuno di loro torna dalle missioni di pace in una bara avvolta dal tricolore. Ma tutto questo non dà senso a quella patria che dobbiamo servire.

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