Il sacrificio di Falcone, una memoria necessaria per un’Italia orfana di verità
La commemorazione del sacrificio di Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e degli uomini della scorta è scivolata sulla superficie di un’Italia in tutt’altre faccende affaccendata, un’Italia rabbiosa e nelle stesso tempo angosciata, dove la parola “Stato” , che 22 anni fa, al tempo della strage di Capaci, poteva ancora risuonare con un accento forte e tragico, è travolta da un generale discredito e che, nella percezione comune, si presenta con il volto di un esattore arcigno, di un sovrano destituito, di un politico screditato, di un amministratore infingardo e corrotto. Belle, intense e vibranti, come sempre, le manifestazioni a Palermo, la Nave della legalità, le voci e i volti dei ragazzi, la cerimonia all’Albero Falcone, le parole di Grasso, le mille espressioni della società civile che non intende rassegnarsi al ricatto e alla prevaricazione della criminalità mafiosa.
Ma in certe occasioni, in certe ricorrenze, avremmo anche il dovere di interrogarci su ciò che rimane di quella poderosa reazione popolare scaturita nel ’92 dall’attentato di Capaci prima e di via D’Amelio poi, quando l’opinione pubblica italiana trovò, come raramente era accaduto in tutta la storia repubblicana, un vigoroso momento di unità. Non c’è dubbio, da una parte, che i semi lanciati in quella stagione abbiano dato notevoli frutti, sia per quanto riguarda i progressi compiuti nella lotta antimafia da parte dello Stato sia per quanto concerne l’affermazione del concetto di “società civile”, cioè a dire della capacità della società stessa di trovare i propri anticorpi culturali, morali e politici per contrastare la mentalità mafiosa. Non c’è però altrettanto dubbio, dall’altra parte, che quell’unità morale di 22 anni fa sia andata via via sfilacciandosi, fin quasi a disperdersi. E non ci riferiamo solo alle polemiche politiche che si sono con il tempo riaccese, ci riferiamo anche al clima di sospetto che è arrivato a lambire lo Stato e quelli che erano i suoi massimi vertici al tempo delle stragi di mafia. Effetto inevitabile e per certi versi scontato nel momento in cui la ricostruzione di quella tragica stagione si fa più complessa e nel momento in cui emerge il sospetto di verità inconfessabili e di livelli oscuri di contiguità tra legalità e malaffare. Ma, proprio per questo, la sacrosanta richiesta di verità (sacrosanta perché un popolo che rimane all’oscuro dei fatti più turpi della propria storia non può dirsi realmente sovrano) andrebbe espressa senza il sensazionalismo e i teoremi ad effetto cui ci hanno abituato certi professionisti dell’indignazione. Nella terra di nessuno che separa i sospetti dalla verità cresce solo la sfiducia. Ed è anche per questo motivo se la rabbia che oggi pervade l’opinione pubblica appare come una rabbia cieca e disperata. Una rabbia molto diversa da quella di 22 anni fa, quando il dolore e lo sdegno per la tracotanza criminale della mafia contenevano pur l’attesa di una rigenerazione e la speranza di un’Italia diversa. Che però non sono mai arrivate.