Giuseppe Giangrande un anno dopo l’attentato a Palazzo Chigi: «Non mi arrendo e penso al futuro»
Una vertebra spezzata e la paralisi dei quattro arti. È la mattina del 28 aprile 2013 quando il 46enne Luigi Preiti, poi condannato a 16 anni, spara ai carabinieri fuori dalla sede della Presidenza del Consiglio, mentre il neonato governo Letta giura al Quirinale, e ne ferisce quattro: Giuseppe Giangrande, colpito al collo, entra in coma. Poi il risveglio e il calvario, con i lunghi mesi in ospedale, la diagnosi (tetraplegia da lesione midollare) e il trasferimento nel centro riabilitativo. I proiettili lo hanno lasciato paralizzato, Giuseppe Giangrande però non si arrende, e lotta ogni giorno, con forza, per continuare a vivere. Il brigadiere dei carabinieri ferito e ridotto in fin di vita dagli spari di Luigi Preiti si racconta in un’intervista a la Repubblica, dal centro di riabilitazione di Montecatone, in provincia di Bologna, che è diventato la sua casa. Un colloquio fatto di domande e risposte scritte e affidate alla figlia Martina che fa da tramite fra il papà e il giornalista autore dell’articolo. Perché lui ha continui problemi di salute, dovuti alle sue condizioni, e di recente ha avuto una crisi respiratoria che ha reso necessaria una nuova tracheotomia. «Voglio vivere la vita per quello che mi può dare, anche se in maniera diversa», spiega il militare, a un anno dall’attentato che ha cambiato, per sempre, la sua esistenza. Nel centro riabilitativo passa le giornate fra la palestra – un’ora e mezza al giorno, nella speranza di recuperare almeno l’uso di una mano – e i pranzi alle 12.30 e le cene alle 18, come negli altri ospedali. E dopo, la tv, dove segue soprattutto i programmi di informazione, per sapere cosa succede in Italia e nel mondo. «Ho ancora voglia di sognare il futuro – dice il brigadiere – per fortuna la gente non si è dimenticata di me. E nemmeno l’Arma. E questo mi riempie di gioia, mi aiuta davvero andare avanti». Parla anche con orgoglio della visita dei colleghi del battaglione mobile Toscana. Del suo aggressore, non ha mai pensato che fosse pazzo: «Non è matto. Non ho mai avuto dubbi, nemmeno nei primi attimi, quando lui mi chiedeva di passare oltre le transenne». Il carabiniere in un colloquio con Il Tirreno, a casa sua prima di Natale, si era detto convinto che «Preiti volesse fare una strage perché aveva dieci colpi nel caricatore e trenta in tasca. Voleva passare alla storia facendosi uccidere, ma i miei colleghi l’hanno immobilizzato. Nella mia squadra non ci sono sceriffi. Non c’è stato un finale all’americana, con i poliziotti che sparano contro chi ha impugnato l’arma contro un loro compagno». Un rapporto speciale lo lega a Enrico Letta: «Sono stato colpito mentre lui saliva nel palazzo. Un destino che ci ha uniti e ci ha fatti conoscere. È venuto a trovarmi anche in ospedale. Mi dispiace non sia più premier». E alla domanda qual è stata la cosa più bella, nel suo mestiere di carabiniere, non esita a rispondere: «Essere carabiniere».