Anni Settanta: la “zona grigia” dei fiancheggiatori della lotta armata. L’accusa di Griner ai “complici” che non hanno mai chiesto scusa

21 Apr 2014 12:17 - di Redattore 54

Da una parte la nostalgia degli anni Settanta produce scenari lacrimevoli di perduta dignità della sinistra con film-documentari come Quando c’era Berlinguer (il comunismo filtrato dalla “buona” visione veltroniana). Ma quel decennio pieno di buchi neri ispira anche annunci ad effetto, come quello del premier Matteo Renzi che promette di togliere il segreto di Stato dagli atti che riguardano le grandi stragi irrisolte che hanno insanguinato l’Italia. C’è però anche un altro punto di vista, che cromaticamente fonde il rosso cupo della nostalgia e il bianco smagliante del nuovismo renziano in una “zona grigia”. Quella delle complicità di cui godette la violenza brigatista in Italia. Una complicità fatta di simpatia, appoggio, consenso, manipolazione dell’opinione pubblica, campagne stampa, coperture giudiziarie. Per quella “zona grigia” ancora nessuno ha chiesto scusa o ha fatto mea culpa. Lo scrittore Massimiliano Griner gli ha dedicato trecento pagine fresche di stampa (La zona grigia. Intellettuali, professori, giornalisti, avvocati, magistrati, operai. Una certa Italia idealista e rivoluzionaria, ediz. Chiarelettere) che – spiega – nascono da un’indignazione per il mancato esame di coscienza di chi ha flirtato con la lotta armata. Griner ricorda una frase inquietante del Br Mario Moretti: “Il numero dei nostri militanti è sempre stato relativo, quello che cresceva era la nostra influenza. Le Br nuotavano in quest’acqua tumultuosa”. Il bilancio finale di quella stagione crudele non va dimenticato. 232 le vittime dell’eversione di sinistra, le gambizzazioni furono 75. Le persone condannate tra il 1969 e oggi sono circa 4200. Raccontare la “zona grigia” è anche raccontare la storia di un’ipocrisia di massa perché solo grazie a una memoria riverniciata è possibile tollerare che gli ex membri di quell’area siano adesso adulti rispettabili e influenti. Ci sono i fiancheggiatori, spiega Griner, come il padre di Erri De Luca che a Napoli concede ospitalità ai latitanti, e ci sono gli intellettuali specializzati nel lanciare appelli, quelli in pratica per i quali le idee non si processano (accusa lanciata ad esempio contro l’inchiesta 7 aprile del giudice Pietro Calogero contro Autonomia operaia).

Griner cita in proposito il Manifesto contro la repressione in Italia nel 1977 firmato da André Glucksmann, Jacques Derrida, Jean Paul Sartre. Un filone destinato a mettere radici profonde come dimostra la campagna pro Cesare Battisti che arruola trent’anni dopo nomi come Gianni Minà, Giuseppe Genna, Erri De Luca, Massimo Carlotto e persino un giovanissimo Roberto Saviano (che ritira la sua adesione nel 2009). Ma la violenza “rivoluzionaria” godeva anche dell’appoggio degli “eskimi in redazione”. Il caso più clamoroso in proposito – oltre all’infame campagna sul rogo di Primavalle presentato come un regolamento di conti tra neofascisti – fu l’articolo di Giorgio Bocca del 1975, L’eterna favola delle Brigate rosse, una favola -scriveva Bocca sul Giorno – per “bambini scemi o insonnoliti”. Dai casi più noti bisogna però scendere, secondo Griner, a quelli meno conosciuti ma al tempo stesso diffusi e radicati, nelle università come nelle aule di giustizia.  Un aiuto prezioso per ricostruire un contesto e per uscire fuori dalla retorica perdonista su anni “bellissimi e crudeli”. Ma anche per fare riflettere sulla “verità ufficiale” sul brigatismo rosso concordata tra Br e regime democristiano. Una verità concordata che chiude nel modo peggiore la pagina luttuosa degli anni di piombo.

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