Pagine di storia/«Il mio Paese mi fa male», all’alba del 6 febbraio ’45 venne fucilato un poeta

6 Feb 2014 20:27 - di Antonio Pannullo

Lo conoscete Robert Brasillach? È stato uno dei massimi talenti letterari francesi del Novecento, ma le sue opere – e il suo nome – erano dannate, clandestine, in Italia solo pochissime case editrici coraggiose pubblicarono i suoi libri e le sue poesie, come i poemi di Fresnes, edito dalle Edizioni Europa. Terminava così: «E le sbarre, o Signore, non riescono a nasconderci il cielo». Anche in Francia c’è una damnatio memoriae nei suoi confronti perché sognava un fascismo francese che non fosse suddito della Germania. Giornalista, scrittore, poeta, critico cinematografico, oltre a saggi e romanzi ha scritto una storia del cinema, fu il primo a interessarsi della cinematografia giapponese, il suo periodoco Je suis partout era diffuso in decine di migliaia di copie. Ma non rubò, non si arricchì, non corruppe, non uccise mai nessuno. Solo scrisse tanto, senza paura, senza rimpianti, senza mai cambiare bandiera. Ed è per questo che Charles De Gaulle volle il processo e che il processo si concludesse con la condanna a morte. Le pochissime foto che ritraggono Brasillach ce lo mostrano come lo stereotipo dell’intellettuale sensibile, coi capelli corti, gli occhiali rotondi, l’espressione spaurita e ingenua, un po’ come Gramsci, ma più innocuo. E lo hanno fucilato. Aveva solo 36 anni. Quando morì gridò “viva la Francia!”, e quella nuova Francia invece gli sparò nel petto. In quel periodo, tra la fine del ’44 e l’inizio del ’45, furono arrestati e fucilati molti esponenti del governo di Vichy, e tra questi Brasillach, che aveva rifiutato di fuggire, pur avendone la possibilità, e rinchiuso nella prigione di Fresnes, dove scrisse gli omonimi poemi. Quando, nel gennaio 1945, la corte lo condannò a morte, il pubblico protestò urlando »È una vergogna!», al che lui dal banco degli imputati ribatté: «Al contrario, è un onore». Nei giorni successivi ci fu un appello per la grazia firmato dai più grandi intellettuali francesi, da Paul Valery a Jean Cocteau, da Paul Claudel a Fraçois Mauriac, da Albert Camus a Jean Anouilh, da Marcel Aymé a Colette, che insieme a migliaia di studenti e di accademici si rivolsero al generale De Gaulle. Ma costrui rifiutò la grazia e all’alba del 6 febbraio 1945 Roberto Brasillach fu fucilato nella fortezza di Montrouge («Io penso a voi, stasera, o morti di febbraio…»). Ora riposa nel cimitero di Charonne, nel XX arrondissement. Dopo la guerra la sua memoria è stata custodita attraverso pochi e rari saggi, come quello del suo avvocato Jacques Isorni in “Il processo Brasillach”, del 1946, poi tradotto in Italia dalle Edizioni Barbarossa, o quello, del 1979, di Giorgio Almirante, “Robert Brasillach” per le edizioni Ciarrapico, o il saggio del finlandese Tarmo Kunnas , “La tentazione fascista”, del 1982. Ci restano però i suoi libri, poetici, bellissimi, tristi, come “La ruota del tempo”, “I sette colori”, “Lettera a un soldato della classe 40”, “Degrelle e il rexismo” e alcuni altri, tra cui opere teatrali, raccolte di poesie, saggi critici. «Mon pays me fait mal», scrisse, ma il male non lo hanno fatto solo a lui.

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