La partita a scacchi tra Renzi e Letta non porterà nulla di buono al Paese

8 Feb 2014 13:41 - di Silvano Moffa

Il tira e molla, in politica, è un gioco pericoloso. La corda, prima o poi, rischia di spezzarsi. Se poi a tirare la corda ci si mettono due ex democristiani, quali sono Renzi e Letta, gli esiti dello scontro possono diventare imprevedibili. Insomma, può succedere di tutto. È evidente che i due a malapena si sopportano. Diversi nel carattere e nei modi, hanno poco o nulla in comune, salvo la provenienza da quella che fu la Balena Bianca scudocrociata. È lì che germoglia, sia pure all’ombra di maestri differenti, la loro indole tattica e quel guardare il mondo dall’alto in basso, come se loro fossero l’ombelico, e tutto il resto un fastidioso accessorio. Non c’è giorno che passi senza che da ambo i fronti partino stilettate velenose e raccapriccianti ultimatum. Tra il dire e il non dire, diventa persino difficile interpretarne il pensiero recondito. Ma forse è chiedere troppo ai due. La verità è che entrambi si annusano e si studiano. Al netto dei proclami, non si fidano l’uno dell’altro. Privi di una strategia limpida e convincente, si sfidano sul terreno del posizionamento. Ossia cercano di ritagliarsi lo spazio più utile  per sferrare l’attacco vincente. La loro è una partita a scacchi. Il guaio è che la scacchiera su cui  muovono le pedine è questo nostro tormentatissimo Paese. Ed è un guaio grosso. Un problema enorme, che non offre  alla partita alcun risvolto affascinante.

Al contrario, la rende indigesta, spocchiosa, maldestra e persino noiosa. Questa storia di tenere il governo sospeso ad un filo, con continui  rinvii delle decisioni in senso alla Direzione del Pd, cioè del maggiore partito che esprime,peraltro, il presidente del Consiglio, ha il sapore di un tatticismo portato all’esasperazione, di un indecisionismo permanente che sconta la confusione che regna sovrana in quei lidi, dopo l’ascesa di Renzi. Quest’ultimo vuole vedere se il patto siglato con Berlusconi possa reggere al confronto parlamentare. Non ha  tutti i torti , ammettiamolo. È questo il primo vero test. Utile al Paese, così com’è, è difficile pensarlo. Serve,certo, a verificare la saldezza del Pd e il tasso di fiducia su cui può contare il neosegretario. Nella prossima settimana si entrerà nel vivo. Vedremo come andrà a finire. Il rischio di slittare su qualche emendamento non è scongiurato. Per questa ragione Renzi si tiene le mani libere e cerca di addossare a Letta l’intera responsabilità della tenuta del governo. In Direzione ha praticamente detto al premier che deve sentirsela lui di portare avanti l’esecutivo. Ove non se la sentisse,  si aprirebbe la discussione e potrebbero affacciarsi nuovi scenari. Ivi comporesa la staffetta a palazzo Chigi tra i due. Come possa aver accolto una simile dichiarazione Enrico Letta non è poi così difficile immaginare.

La frase del segretario, nella sua brutale schiettezza, sancisce la netta separazione tra i due ruoli; come se l’uno non dovesse rispondere di  quel che fa l’altro; come se non abitassero sotto lo stesso tetto e non militassero nella stessa casa politica; come a voler acclarare la tesi che il Pd, nella versione renziana, sia cosa  ben diversa dal Pd nella versione governativa. Un paradosso. Peggio, un gaglioffo tentativo di confondere le acque di fronte all’opinione pubblica. Se poi ci si mette il tortuoso viatico che, a partire dalla prossima settimana,tra Camera e Senato incontrerà un nutrito gruppo di decreti in scadenza, non è complicato tirare le somme del ragionamento. Le avvisaglie di possibili crolli della maggioranza non sono mancati. I primi siluri sono arrivati sul decreto Destinazione Italia. È il provvedimento al quale Letta mostra di tenere di più. Ci sono, inoltre, in scadenza il Piano Carceri, passato con la fiducia alla Camera. Entro il 21 febbraio tocca al Senato convertirlo  in legge. Entro il 28 scade il decreto Salva Roma, sul quale si è accesa una feroce disputa in seno alla maggiuoranza e all’interno dei partiti che la compongono. Entro il 26 si dovrà votare, pena la decadenza, la norma per abolire il finanziamento pubblico ai partiti e, a metà del prossimo mese, torna in aula l’ennesima proroga delle missioni internazionali, tra cui Afganistan e Libano. Si tratta di argomenti che richiederebbero ben altra coesione tra le forze politiche che sostengono l’esecutivo. E un clima di tutt’altro tenore in seno al Pd. Nel frattempo, in questo panorama incerto, altalenante e sinceramente stucchevole, giungono dall’Europa due segnali che dovrebbero far riflettere.Il primo viene da Berlino. La Corte costituzionale tedesca ha rimesso alla Corte di giustizia europea la questione relativa alla legittimità del programma Omt, ossia delle decisioni assunte dalla Bce di Draghi di acquisire i titoli di Stato di Spagna e Italia al fine di evitarne il default. Al di là del giudizio di merito (bisognerà attendere le decisioni della Corte per esprimersi), è chiaro che in Germania i falchi anti Europa non si rassegnano. Nè la Merkel può opporsi alla magistratura. L’altra notizia non è meno inquietante. Viene dall’Olanda. Uno studio commissionato dal parlamento e dal partito di Geert Wilders, leader del Freedom Party, ha valutato i costi di una eventuale decisione di lascaiare la Ue. Secondo  la Britisch Capital Economics, che ha condotto l’indagine, gli olandesi ci guadagnerebbero ad uscire dall’Europa. Il reddito dei Paesi Bassi potrebbe crescere di un trilione e mezzo di euro da qui al 2035. Nelle tasche di ogni olandese, a conti fatti, entrerebbero in più poco meno di 10 mila euro (9800 per l’esattezza). E dire che fra non molto dovremo votare per le Europee!

 

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