Diventa un giallo la morte di Philip Seymour Hoffman: molte (forse troppe) bustine di droga trovate accanto al corpo
Quella in cui gli agenti si sono imbattuti, entrando nel suo appartamento del Greenwich Village, al 35 di Bethune Street, è una scena agghiacciante, degna dei più freddi copioni gialli: il Wall Street Journal ed il tabloid New York Daily News raccontano del ritrovamento del corpo dell’attore privo di vita, reclinato sul pavimento del bagno, con l’ago di una siringa nel braccio. Come nel copione del Talento di Mr Ripley, uno dei più inquietanti recitati da Philip Seymour Hoffman, anche la sua morte – avvenuta ieri a causa di quella che, a una prima analisi, appare una overdose di droga – sembra aprire a strani interrogativi a cui solo l’autopsia, prevista per oggi, potrà dare qualche parziale risposta. La scena del ritrovamento del corpo, la dinamica degli avvenimenti, la ricostruzione dei tempi, l’effettiva causa fisica del decesso: tutto sarà passato al setaccio dalla polizia. Per ora, da fonti vicino agli investigatori, la Cnn riferisce che all’interno dell’appartamento dell’attore sono state rinvenute una cinquantina di bustine contenenti una sostanza che si ritiene essere eroina. Ma è nel dettaglio delle indiscrezioni che la scomparsa del meraviglioso attore americano, trasformista dalla mille anime e dagli infiniti volti, sembra venarsi di giallo: le bustine rinvenute accanto al corpo di Philip Seymour Hoffman recavano l’enigmatica scritta Ace of spades (asso di picche). E non è tutto: gli investigatori, secondo quanto riferisce l’emittente statunitense, avrebbero trovato sul pavimento del bagno dell’appartamento newyorkese dove è morto l’attore, più di 20 siringhe usate, all’interno di un bicchiere di plastica, e accanto, numerose altre bustine contenenti polvere bianca.
Qualunque sia stata la dinamica dei fatti, quali che siano stati i motivi di tanto malessere, l’unico dato incontrovertibile al momento è che oggi un professionista di alto livello, a soli 46 anni, padre di tre figli piccoli, con tanti progetti ancora tutti da realizzare, non c’è più: vittima di vecchi demoni che sono tornati a bussare alla sua porta. Per di più, la situazione della morte precoce per droga, di un uomo giovane e talentuoso a cui il futuro avrebbe potuto riservare tanto, riporta alla mente il 20o8 e la tragica fine di un altro sensibile interprete, Heath Ledger, trovato morto nel suo appartamento di Manhattan in seguito ad una combinazione letale di farmaci. Ecco, l’abuso chimico: un sostegno letale a cui Philip Seymour Hoffman ha sentito il bisogno di tornare, sfidando la sorte.
Schivo, laconico, timido: l’attore americano scomparso ieri era un uomo dalle mille contraddizioni. Un temperamento fragile e riservato, il suo, nascosto nelle pieghe di una corporatura prestante; un attore poliedrico più incline al teatro e ai classici della drammaturgia, che ha esordito nelle più avanguardistiche produzioni indipendenti, considerato di default esponente del cinema indipendente, eppure salito sulla ribalta internazionale grazie ai grandi successi cinematografici a cui sono seguiti premi e riconoscimenti dall’indiscusso blasone critico: dalla Coppa Volpi conquistata a Venezia nel 2012, premiato per il ruolo del leader della setta che ricorda Scientology in The Master di Paul Thomas Anderson, (lo stesso regista che anni prima regalò a Philip Seymour Hoffman il personaggio struggente dell’infermiere di Magnolia), fino al più ambìto dei premi per un attore americano capace, come lui, di coniugare impegno e spettacolarità: l’Oscar, vinto nel 2006, grazie alla sua sfaccettata ed equilibrata interpretazione di Truman Capote in A sangue freddo di Bennett Miller.
Per più di 20 anni Hoffman ha affascinato e divertito milioni di spettatori con le sue interpretazioni di eccentrici personaggi del grande schermo, mettendo la sua inconfondibile firma istrionica ai film più riusciti e rinomati degli ultimi decenni: da Il Grande Lebowsky dei fratelli Cohen a Le idi di marzo di George Clooney, passando per il comico I love Radio Rock e per il provocatorio Boogie Nights. Dolce, umile, ironico e appassionato come uomo, padre di tre bambini piccoli avuti dalla moglie Mimi O’Donnell (Alexander, nato a marzo 2003, Tallulah, una bimba di otto anni, e Willa, di sei), Philip Seymour Hoffman ha declinato sul grande schermo tutte le sfumature caratteriali, dalle più accese a quelle più profonde, conferendo credibilità, sensibilità, verve sarcastica e conflittualità a tutti i personaggi da lui portati al successo. Riuscendo a tenere nascosto, per quanto possibile, compatibilmente con il gossip, il tormento che lo ha accompagnato a lungo fuori dal set, e che lo ha condotto alla tossicodipendenza. Una debolezza ammessa dall’attore che, secondo alcune indiscrezioni che in queste ore il web rilancia e condisce, ancora l’anno scorso avrebbe frequentato un centro di riabilitazione per eroinomani. Tanto che, in un’intervista rilasciata nel 2013, avrebbe ammesso di «esserci ricascato», ma dopo ventitré di astinenza dalle droghe. Caduto nella tentazione fatale per l’ultima volta ieri, protagonista di un finale tragico per cui oggi acquista drammatica veridicità quella dichiarazione rilasciata tempo fa al New York Times: «Questo tipo di amore così profondo per lo spettacolo ha un prezzo: recitare è una tortura perchè sai che è una bellissima cosa. Desiderarla è facile. Cercare di essere grande, però… questa è la tortura».