Perse il lavoro per un post contro la Kyenge. Fratelli d’Italia: reintegratelo
Punito due volte: condannato senza possibilità d’appello alla gogna mediatica, prima; abbandonato sull’orlo del baratro, poi. Quel «torni nella giungla» rivolto con toni poco “social” sulla piattaforma di Fb al ministro Cecile Kyenge, è costato caro al consigliere circoscrizionale di Trento, Paolo Serafini, licenziato dall’azienda locale di Trasporti, Trentino trasporti esercizio (Tte). Quell’invettiva postata sul web, deflagrata in maniera virale in Rete, e rimbalzata come un boomerang dai giornali alle tv, ha innescato una spirale negativa nel cui gorgo, da “carnefice” accusato di ogni genere di recriminazione, Serafini è finito per diventare la vittima di un anticonformismo al contrario, in nome del quale marchiare il reo di turno senza recupero. Da ottobre ad oggi, infatti, – come ha spiegato lui stesso attraverso i mezzi d’informazione – è finito in miseria dopo essere stato licenziato, tanto che, per non aggiungere al danno anche la beffa dell’umiliazione, ha aperto una sottoscrizione a suo nome: un modo – ha dichiarato lui stesso nei giorni scorsi dalle colonne di un giornale trentino – «per chiedere la carità, senza farlo di persona».
Oggi, per esprimere dissenso contro il suo licenziamento, e a invocare solidarietà per le precarie condizioni di vita a cui è costretto, confidando in un reintegro sul posto di lavoro, Forza Nuova e Fratelli d’Italia del Trentino sono tornati sul caso con una conferenza stampa. Durante la quale l’esponente di Fdi Marika Poletti ha ricordato come «quella di Serafini sia stata una sciocchezza scritta», ma anche che «è grave che chiunque esca dal politicamente corretto possa essere distrutto in questo modo, al di là della vicenda specifica. E ancora più grave – ha proseguito – è che a ergersi a censore siano i giornali e la Provincia autonoma di Trento. La stessa Provincia autonoma – ha poi concluso la Poletti – che ha al suo interno, ad esempio, un funzionario condannato per falso in atto pubblico, diventato dirigente generale; un funzionario condannato per molestie sessuali nei confronti di nove colleghe; un funzionario e un sottoposto condannati per frode in forniture che hanno avuto solo quattro giorni di sospensione».
Colpirne uno per educarne cento: sembra proprio questo, insomma, il principio punitivo applicato al caso Serafini, che ha in corso anche un procedimento penale per apologia al fascismo e istigazione al razzismo. Lui, che a causa di quella infelice frase divulgata in Rete, è diventato oggetto di una denuncia, poi amplificata e aggravata dall’eco mediatico della vicenda. Vicenda sulla quale ha pesato non poco la risonanza data all’insulto xenofobo di Calderoli rivolto alla stessa ministra, (paragonata a un primate ndr), e per cui un Pd in cerca di depistaggi giornalistici arrivò a chiedere le dimissioni dell’ex ministro leghista, dimenticandosi di fare lo stesso per tutti i responsabili democratici implicati nello scandalo del Monte dei Paschi di Siena. Ma questa è un’altra storia. Una storia sbrigativamente archiviata e a cui la stampa “amica” ha opportunamente messo la sordina, mentre sul capo di Serafini gravano a tutt’oggi pendenze giudiziarie civili e penali ancora da risolvere, che vanno ad aggiungersi come un macigno sullo stato di indigenza a cui è costretto, e che riesce ad affrontare solo grazie alla solidarietà di amici e conoscenti. Sul computer si può resettare, ma nella vita – come dimostra Serafini – non sempre…